Scuola, cosa abbiamo imparato dalla pandemia

Al convegno dei sociologi dell'educazione è stato presentato un volume sull'impatto avuto dal lockdown dovuto alla pandemia sul sistema educativo

“Che cosa abbiamo imparato dalla pandemia”. Un titolo interessante per presentare, al recente convegno dei sociologi dell’educazione che si è tenuto a Palermo, un volume che raccoglie i contributi di una ventina di sociologi, per lo più giovani, che hanno affrontato il tema della pandemia da molti punti di vista, chiedendosi che impatto abbia avuto sul sistema educativo il profondo stravolgimento causato dal lockdown, il cui aspetto fondamentale è stata la sospensione dei rapporti faccia faccia (con gli insegnanti e con i pari) in un ambiente specializzato, la scuola, sostituiti dalla didattica a distanza nell’ambiente domestico.

L’idea di fondo condivisa dagli autori, sulla base della conoscenza accumulata nei decenni, è che le conseguenze negative della pandemia si siano innestate sui problemi già esistenti della scuola (e dell’università) italiana: sopravvivenza del modello centralizzato e ridotta autonomia delle istituzioni, dispersione e insuccesso collegati alle origini famigliari, inadeguata formazione degli insegnanti, mancata integrazione fra statale e non statale a tutti i livelli, scarsa partecipazione delle famiglie e della società civile. La risposta del Ministero è stata di mettere in atto misure di emergenza, non misure per una situazione di emergenza: la distinzione, che trovo di grande interesse, è che “mentre misure di emergenza per l’educazione significa ‘misure temporanee che casualmente si trasformano in risposte a lungo termine ai bisogni educativi degli studenti’, misure educative in condizione di emergenza significa esaltare gli effetti di protezione dell’educazione” fornendo risposte rapide in situazione di crisi, valorizzando un approccio basato sulla comunità e potenziando gli attori coinvolti (insegnanti, amministratori, giovani).

La sintesi evidenzia, con il dichiarato intento di fornire indicazioni ad altri, undici punti che non sto a riprendere per intero, evidenziandone solo alcuni che mi interessano di più. Il primo punto è che “la pandemia ha esaltato l’importanza della componente socio emotiva nei processi educativi”, e questo dà precise indicazioni per i programmi e per la formazione dei docenti, oltre a porre la questione squisitamente didattica di come sia possibile rinforzare a distanza le competenze socio emotive. La centralità del ruolo docente si scontra con le esigenze della DAD, che li trova in difficoltà, così come ha colto impreparati molti dirigenti, il cui ruolo strategico nel mantenere un ambiente educativo significativo è stato sottovalutato da anni di centralismo strisciante, per cui molti non hanno saputo sfruttare o organizzare i nuovi spazi dell’autonomia nel momento in cui l’ambiente fisico è venuto a mancare.

Un secondo gruppo di osservazioni riguarda l’utilizzo delle tecnologie, che sono state l’aspetto più evidente del cambiamento. In sintesi, possiamo dire che le varie forme di DAD sono venute per restare, e questo richiede sia un’intensificata qualificazione dei docenti, che in buona parte ancora le padroneggiano con difficoltà, sia una revisione globale delle dotazioni, sia infine una riflessione su quella che viene chiamata (accademia delle Crusca, perdonami) piattaformizzazione della scuola, che indica non la necessaria implementazione degli strumenti e delle tecnologie per l’accesso a distanza alla conoscenza, ma una sorta di resa al monopolio esercitato dalle grandi aziende di Big Data, che si oppongono a realizzare e distribuire piattaforme aperte, mentre l’educazione è un bene pubblico e come tale va tutelata dalle operazioni puramente commerciali. Nella ricerca educativa italiana, mi pare che fino a oggi questo tema, che va sotto il nome di critical data studies, sia stato poco presente, e andrebbe sviluppato anche come riflessione sulle conseguenze dell’innovazione digitale.

Un terzo gruppo riguarda le interazioni fra scuola e non-scuola, improvvisamente al centro dell’attenzione a partire dalla centralità dell’ambiente domestico, dove è emerso che nel periodo di chiusura l’educazione formale sarebbe stata impossibile senza il supporto attivo dei genitori. Questo significa, però, che le disuguaglianze iniziali sono state potenziate dalla DAD: genitori meno preparati, poca disponibilità di tempo, ambiente poco adattabile alle esigenze di studio, dotazioni tecnologiche inferiori, a cominciare dai collegamenti. In mancanza di un progetto organico, che assicuri equità nella distribuzione delle risorse, la marginalizzazione dei gruppi più sfavoriti aumenta, e rischia di aggiungersi alla lunga lista delle “emergenze croniche”, se mi perdonate l’ossimoro.

Vorrei però chiudere questa nota sottolineando un diverso aspetto del lavoro presentato. Un’associazione professionale, in questo caso i sociologi dell’educazione, si è fatta tempestivamente carico di sollecitare i suoi membri a impegnarsi in una riflessione su di un avvenimento che, da problema sociale, diventava problema sociologico, richiedeva cioè una riflessione non estemporanea sulle ricadute a breve e medio termine della pandemia sul sistema educativo, con un’analisi ragionata delle cause, del modo in cui gli attori l’hanno affrontata, sui cambiamenti che ha già indotto nelle modalità organizzative del sistema, ma anche sull’insieme delle relazioni. Mi sembra una presa di coscienza non comune del ruolo che il ricercatore può avere nello studiare, capire e comunicare un fenomeno, trasformando una crisi in un’occasione di miglioramento, per aiutare sia la comunità che i politici a prendere decisioni ragionate, per evitare gli errori e sfruttare l’esperienza per il futuro.

P.S.: È possibile che il giudizio positivo sui miei più giovani colleghi sia stato influenzato dal fatto che io resto pur sempre una sociologa dell’educazione e sono stata, nel giurassico, fra i fondatori della sezione, ma a parte il coinvolgimento personale, questo tipo di impegno mi sembra un esempio da condividere di assunzione di responsabilità in condizioni di rischio, quando cioè un pericolo reale e improvviso, in questo caso il virus, sfida la tranquilla routine del lavoro di ricerca.

Rinvio chi fosse interessato a un approfondimento al testo completo, in inglese, Education and emergency in Italy – How the education system reacted to the first wave of Covid 19, curato da Maddalena Colombo e altri.

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