“Del 25 aprile non me ne frega niente”. La dichiarazione troneggia sul blog di un abile giornalista. Volutamente provocatoria, la frase fa un certo effetto, bisogna ammetterlo. Ma, pensarci bene, non è la frase di una mosca bianca: non vedo le masse accanirsi pro o contro i riti di santificazione della Resistenza. Acqua passata, roba di ottant’anni fa, adesso ognuno a rincorrere i suoi guai, che sono altri.
I giovani poi, non parliamone, pochi sanno vagamente di cosa si tratta. Nel palazzo della politica no: una parola, ma che dico? una sillaba in più o in meno, e la polemica è servita. Sull’autocertificazione di antifascismo si sono dati duello in questi giorni esponenti del Partito democratico fu Ds, fu Pds, fu Pci, e di Fratelli d’Italia (fu Alleanza nazionale, fu Movimento sociale italiano). Curiosamente, ma non troppo, trattasi delle due forze politiche che non avevano la democrazia nel Dna, gli uni perché “lo Stato borghese si abbatte non si cambia”, gli altri perché “viva il Duce”. La democrazia l’accettarono i primi perché così voleva Stalin via Togliatti, gli altri perché non si poteva fare diversamente. Il cammino successivo portò a cancellare nell’ideologia e nelle strategie dei due partiti il traguardo comunista o il ritorno al fascismo. All’inizio degli anni 90 il processo fu ufficializzato da Occhetto con il congresso della Bolognina e la fine del Pci, e da Fini al congresso di Fiuggi con la fine del Msi. Sono passati ottant’anni dalla Resistenza e trenta da quelle radicali trasformazioni delle due estreme di sinistra e destra. Sarebbe ora di finirla con l’uso strumentale di quegli eventi e lasciare agli storici (quelli veri, non i furbetti della propaganda) l’indagine sui fatti e il progresso della conoscenza del vero.
Con tutto ciò, non sembra una buona scelta il “me ne frego”. Intendiamoci: gridare al pericolo fascista oggi è come gridare al babau: serve solo a spaventare i bambini o – nel caso nostro – ad ergersi a pm e giudice dell’avversario politico. La questione dell’antifascismo non può essere perpetuata in maniera strumentale, ma nemmeno rimossa o annullata, perché storicamente l’Italia democratica e repubblicana si è costituita in opposizione e come radicale alternativa al regime fascista. L’antifascismo è, storicamente, coessenziale all’affermazione della democrazia italiana.
Come è stato detto, gli italiani democratici sono tutti antifascisti, non tutti gli antifascisti sono democratici (vedi ad esempio i movimenti rivoluzionari di sinistra degli anni di piombo, fino alle Brigate rosse). Nella nostra Costituzione l’antifascismo è un’implicazione, non è il fattore fondativo. Fattori fondativi sono la sovranità popolare, il valore intangibile della persona come titolare di diritti (e di doveri), il valore del lavoro, il valore delle libere formazioni sociali in cui la personalità è sostenuta e fatta sviluppare. Fondativa è dunque la considerazione della comunità umana come soggetto protagonista che non lascia la scena solo allo Stato e al mercato, ma concorre al bene comune in un’ottica sussidiaria. Questi fattori sono fondativi nel senso anche che informano l’architettura dello Stato e l’equilibrato sistema dei poteri e degli organi di garanzia e di controllo.
Tutto ciò significa che la legittimazione a partecipare alla vita politica del Paese è data dall’adesione ai valori costituzionali, non a patenti di antifascismo, specie se rilasciate da chi se ne è arrogato abusivamente il diritto. Allo scopo di prendersi quanto più spazio di potere possibile. Nella storia del nostro Paese questo è stata molto spesso la presunzione della sinistra comunista, parlamentare ed extra: la retorica dell’unità antifascista e dei comitati antifascisti mirava ad arruolare in posizione subalterna forze non comuniste e a de-legittimare (o a prendere a legnate) chi non ci stava. Non casualmente: nella visione ideologica della politica, specie marxista e gramsciana, chi possiede l’interpretazione della storia possiede l’egemonia culturale e quindi politica. Non è un caso che la lotta per il potere in Italia si sia giocata molto sull’interpretazione del fascismo.
Ora però che le vecchie culture politiche si sono dissolte e il popolo per lo più caracolla o barcolla tra mutevolissime opinioni senza appartenenze ideali… Liberazione. Resistenza. Va bene. Ma a chi? E come?
Domandare è lecito. Per una risposta plausibile, che non sia una rimpatriata da amarcord (ma poi, chi si ricorda che cosa?) appare più che mai necessario un cambio netto di atteggiamento.
Innanzitutto, si tratta di mollare i vecchi schemi di comodo e aprire gli occhi. Accorgersi di come vanno davvero le cose. Se non si fa uno sforzo di conoscenza, non si va da nessuna parte. In secondo luogo, sviluppare una nuova cultura sociale e politica.
Quanto alla necessità di accorgersi, almeno grosso modo, via, non è impossibile: anzi, bisogna avere le fette di salame sugli occhi per non vedere che un establishment economico-tecnologico-culturale è in grado, esso sì, di limitare in maniera morbida ma assi più invasiva dell’olio di ricino la nostra libertà: creando e manipolando desideri, preselezionando il campo delle informazioni, orientando linguaggi e comportamenti al politically correct, cioè ai valori che il potere stesso conclama, per esempio dando fiato alle trombe dei cosiddetti nuovi diritti individuali e fuorviando l’attenzione dalle ingiustizie sociali.
Quanto a una diversa cultura (anche) politica, non può che nascere dal basso, cioè dall’esperienza; da un io e da un noi (ce ne sono, ce ne sono, è bene che aumentino), che vivono con il gusto umano della costruzione, incontrano bisogni, si accorgono dei mutevoli volti del potere, realizzano amicizia sociale, partecipano a luoghi di conoscenza e di cultura. Ma non solo. Può trovare aiuto a nascere e alimento a crescere nel pensiero di grandi maestri che in tema di interpretazione del fascismo, nuovi fascismi, l’io, desiderio e potere hanno detto, in largo anticipo, cose illuminanti. Ho in mente, fra gli altri, Renzo De Felice, Augusto del Noce, Pier Paolo Pasolini (Scritti corsari, 1974), Luigi Giussani (L’io, il potere e le opere, 1987).
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