È subito giunta in Europa l’eco del mantra neo-industriale coniato di zecca dal Nobel Paul Krugman: “Make Manufacturing Greater Again”. Uno sberleffo aperto al “MAGA”, brand politico di Donald Trump, alla vigilia di un probabile duello-bis con Joe Biden per la Casa Banca. Uno sforzo mediatico di validazione accademica in corsa del “New-New Deal” varato dall’Amministrazione democratica, che ha messo sul tavolo 390 miliardi di dollari di sussidi pubblici alle imprese, sotto l’etichetta Ira (“legge per la riduzione dell’inflazione”). Questo a sfidare, tuttavia, il tetto all’indebitamento federale che Biden vorrebbe sforare, incontrando però l’opposizione dei repubblicani alla Camera dei Rappresentanti.
Il teorema politico è chiaro: il successo “profetizzato” per il MMGA (una sorta di “Rinascimento Industriale” negli Usa) si annuncia per i “dem” la riprova finale che il MAGA-1 di Trump non ha funzionato. Un’affermazione in sé opinabile. La politica economica del quadriennio repubblicano si è sostanziata nella riforma fiscale varata al giro di boa del mandato: una manovra squisitamente pro-business, con il taglio delle tasse a imprese e “ricchi”. I risultati non sono mancati. Fino alle soglie del Covid, il Pil Usa è linearmente cresciuto e l’occupazione è virtualmente divenuta “piena” con l’inflazione sotto controllo. L’obiettivo mancato è stato l’aumento dei salari medi e soprattutto di quelli più bassi, nelle fasce di lavoro meno qualificato; e quindi il restringimento della forbice delle diseguaglianze sociali. Non era certamente nelle corde del tycoon Trump, ma era nondimeno nell’agenda elettorale del candidato Trump, rivolta agli americani “dimenticati”.
La pandemia, comunque, ha spazzato via nell’ultimo semestre, sette semestri precedenti di gestione presidenziale della Corporate America: benché Trump abbia velocemente inondato di sussidi pubblici d’emergenza il Paese in lockdown. Biden si è ben guardato dal prosciugare subito l’iper-liquidità da Covid, esattamente come ha mantenuto in chiave di sovranismo imprenditoriale/occupazionale la chiusura trumpiana delle frontiere ai migranti latino-americani. Se il Presidente americano ha al momento mancato alcune promesse (le principali era il raddoppio del salario minimo legale e la cancellazione dei debiti universitari), il suo rilancio politico-economico sembra però ora imboccare la strada dell’ortodossia “dem”. Anche se non priva di ambiguità nelle premesse e quindi di incertezze sull’esito. E con più di uno spunto di riflessione per l’Ue.
La strategia neo-statalista di Biden (già di per sé un azzardo ideologico nel Paese tempio della libertà economica) è stata inizialmente mirata alla transizione verde, su pressione “obamiana” dei democratici liberal, nemici giurati di carburanti sporchi e trivellazioni. Dopo lo scoppio della crisi geopolitica e l’infiammarsi anche negli Usa dell’inflazione da energia, quella strategia è però diventata economicamente meno certa e politicamente più divisiva. È stata infatti ribattezzata “anti-inflazione”, tenendo assieme anche aiuti d’emergenza al caro-bollette. Ma con un passo brevissimo si è poi reinventata come politica di re-industrializzazione accelerata degli Usa, sotto la spinta esterna di due variabili geopolitiche esterne: la necessità di rilancio l’industria militare e di promuovere il reshoring delle imprese “occidentali” da una globalizzazione divenuta scomoda al confine cinese (esemplare del tutto la priorità alla produzione nazionale dii microchip).
Che il MMGA sia la ricetta corretta e realizzabile per l’Azienda-America odierna – e anche per l’agenda politico-economica “dem” – resta ancora tutto da dimostrare: al di là del viatico di Krugman. E in attesa di capire come la pensi “Mfaag”: la prima cerchia dei big tecnologici che sono oggi l’architrave dell’economia Usa e di ogni suo primato.
Vale d’altronde la pena di ricordare subito un (poco confortante) precedente storico: il New Deal rooseveltiano – risposta alla crisi finanziaria del 1929 e alla Grande Depressione seguente – si compì con pieno successo solo con la Seconda guerra mondiale. Che gli Usa combatterono in Europa e Asia, mai lontanamente minacciati sul loro territorio nazionale.
L’Europa, a proposito, ha contestato fin dapprincipio il neo-sovranismo statalista di Biden. Non c’è poi molto da stupirsi: i trent’anni successivi alla caduta del Muro sono stati impiegati dall’Ue per omologarsi alla globalizzazione finanziaria dettata dall’America “dem” di Bill Clinton e di Wall Street. Ora bisogna tornare in fretta alla manifattura su base nazionale (o di “macroregione Ue”)? Bisogna ripartire dal riarmo? E da quale “transizione energetica”: quella di Greta o quella del “nucleare pulito”?
Nei fatti anche il Recovery Fund (di cui fa parte anche il Pnrr italiano) sta scontando le stesse traversie geopolitiche dell’Ira americano. Nato come Next Generation Eu (strettamente finalizzato alla transizione ecoenergetica e digitale) è divenuto piano d’emergenza Covid, prima per le famiglie, poi per i sistemi-Paese (con tendenziale vocazione alla modernizzazione infrastrutturale). Ora la guerra russo-ucraina ha ulteriormente scosso gli scenari, portando anche in Europa i mantra degli investimenti in sistemi di difesa e della protezione industriale degli “interessi nazionali” (ad esempio, nel settore farmaceutico).
Il rilancio della manifattura italiana (e di una politica industriale coerente) si presenta in sé allettante: sia sul piano economico che su quello politico (anzitutto per una maggioranza di centrodestra). Ma – esattamente come l’intero Pnrr – una riconversione strategica dettata da circostanze esterne non è facile da “mettere a terra”. L’industria italiana è il motore dell’Azienda-Paese da molto prima che un editoriale del New York Times riscoprisse la manifattura per ragioni elettorali interne agli Usa. E non è detto che la ricetta dei sussidi pubblici ai produttori di chip vada bene anche per l’Italia.
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