Ci sono sere, anche pomeriggi, nelle quali basta il suono di una certa voce per sentire una tempesta placarsi. Se quella voce, poi, pronuncia il tuo nome, il mistero del bene raddoppia: “Se una notte ti perderai dentro un bosco buio, solo chi saprà il tuo nome riuscirà a portarti a casa”, diceva a noi bambini la nonna in una di quelle serate d’estate che, in montagna, eran forma di “scuola applicata”, nella stagione delle vacanze. Era la sua voce – assieme alle altre voci di casa – poi, a tranquillizzarci: quel suo modo di parlare, di chiamarci, di mettere mano a quei diminutivi che soltanto sulla sua bocca non ci infastidivano. Il fatto è che, ascoltando la sua voce, vedevamo lei anche se non ci era proprio davanti.

Più che una questione di occhi – dunque di sguardi, carezze, coccole – le mie voci amiche sono questione di udito: al solo sentirle, mi appaiono nitide, vicinissime, di protezione. E anche solo udendole, queste voci, mi fanno accadere qualcosa che non so spiegarmi: mi fanno sentire felice, anche senza sentirmi abbracciato stretto. Queste voci sono stanze di casa, soggiorni accoglienti, braccia aperte su misura per me: «Come posso dire se la tua voce è bella / So soltanto che mi penetra / e mi fa tremare come una foglia / e mi lacera e mi dirompe» (K. Boye).

Una voce che pronuncia il tuo nome è una forma di eccitazione massima. Se quella voce, poi, è quella di Dio, lo spaesamento diventa totale, il naufragare si fa di dolce in quell’eco: «Egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome». Non per cognome, per mestiere, per soprannome: nominare male le persone, anche le cose, è come decidere di partecipare all’afflizione del mondo. Per questo, nei campi di sterminio, toglievano anche il nome, sostituendolo con la numerazione di ghiaccio. Semplice: le lettere del proprio nome possiedon una terribile magia che ci fa diventare delle briciole di polvere ogni qualvolta qualcuno lo pronuncia. Non è possibile un mondo senza nomi, di soli numeri, di codici fiscali ambulanti.

Poi, dopo averci chiamato per nome, Gesù Cristo fa di più: ci «conduce fuori». Ai suoi occhi non siamo nati per stare-dentro, ma per andare fuori: per questo ci spinge fuori. “Fa brutto tempo, mioddio, lasciaci dentro quest’oggi! Ci riposiamo, così domani siamo più in forma” lo supplichiamo noi, pigri per vocazione. E Lui: “Non esistono tempi brutti, figliommio, sei tu il tuo tempo. Forza: fuori e ricordati di diffidare dalle (l)imitazioni che il mondo ti mette addosso”. 

D’altronde lui ha un patentino di pastore certificato: sa bene che soltanto chi rischia di spingersi più lontano dagli altri potrà trovare e mangiare erba più fresca. Potrà accorgersi di quanto lontano si possa ancora andare. E appena spinto fuori me col mio nome addosso, «cammina davanti ad esse, le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce». Segna la strada, batte il ritmo, è il più esposto al lupo mannaro e cattivo che si potrà annunciare dietro la curva. E’ un pastore, non è mercenario.

Quello cristiano è il Dio del rischio: non si nasconde nelle retrovie, non sta in tribuna a dare consigli, non sta nascosto in ufficio facendo dire dal segretario ch’è occupatissimo oggi. Scende in pista, sale sulla barca, entra nella tempesta, si mette capofila, ci mette la faccia.

Se un giorno, poi, la sua voce appare bassa e fioca, non è principio di villaneria, di codardia: semplicemente vuole che chi gli sta dietro, non stia troppo dietro. Che gli stia proprio dietro: parla sottovoce per il semplice fatto che vuole che ci avviciniamo a Lui. Che gli stiamo stretti al suo seguito non per diventare dipendenti, ma per non perdere la strada. Perché se noi perdiamo la nostra vita, fallirà anche lui: «Son venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (cfr Gv 10,1-10). Non solo la vita, ma la vita in forma abbondante.

Una sfida seria l’abbondanza (di vita), se è riuscita a far scomodare anche Dio. Abbondanza non è abbastanza: il mercenario insegue l’abbastanza, il pastore l’abbondanza. Satàn vive a rimorchio, Cristo è un treno con rimorchio.

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