La Cassazione ha definitivamente chiuso il capitolo giudiziario che ha coinvolto pezzi dello Stato ed esponenti della politica che, secondo la tesi sconfessata della Procura di Palermo, avrebbero “trattato” con la mafia nei giorni caldi delle stragi del 1992.

La verità giudiziaria resta ad oggi l’unica verità a cui si possa far riferimento e che, mentre chiude una lunghissima fase di processi e inchieste, lascia aperto più di un interrogativo. Non sui fatti storici e la loro rilevanza penale. Non vi fu reato, quelli minori sono prescritti, e gli imputati sono innocenti. Ma la loro lunga traversata nel deserto ha lasciato il segno. Alti ufficiali dei Carabinieri, ex ministri, sono rimasti attanagliati nelle lunghe spire del processo penale ed i danni sono per loro irrimediabili. I magistrati che li hanno inquisiti oggi hanno ruoli apicali come esponenti politici e sono personaggi pubblici ammantati di un alone da sacerdoti della verità.

L’assoluzione definitiva degli imputati dopo un così grande dispendio di energie non può essere un successo, eppure le loro parabole di vita sono improvvisamente diventate iperboliche proprio per quel processo. E mentre ora restano dove sono, grazie ad un costrutto giuridicamente irrilevante, chi è stato messo sotto inchiesta ha di certo avuto la vita cambiata, in peggio, senza colpe.

Sia chiaro che nel nostro sistema attuale non può essere in discussione, fino a riforma, l’autonoma azione del singolo procuratore che intenda seguire una propria linea di inchiesta. Ma deve essere altrettanto chiaro che il corollario della “fama” e della promozione di sé appare un esito davvero ingiusto, se non dannoso. Un processo ha delle regole e delle procedure tali da rendere chiaro solo un fatto giuridico ovvero se vi sia o meno un colpevole. E quel colpevole paga conseguenze che, vista la fallacia del sistema, a volte possono essere ingiuste.

Di quegli errori, a partire da Tortora in poi, ci si è accorti solo grazie alla tenacia di chi ha sostenuto una verità diversa da quella processuale, ma le conseguenze per i magistrati che hanno commesso quegli errori sono state in pratica inesistenti. Mentre la fama che ne è conseguita, le carriere fatte non sono state intaccate minimamente.

Il sospetto, da estirpare, è che la ricerca di fatti eclatanti, di inchieste da copertina sia a volte troppo condizionante e che porti a seguire ciò che fa più rumore rispetto a ciò che più utile.

Il tema è che la giustizia, nel nostro Paese, si nutre di slanci eroici e sacrifici senza essere mai fino in fondo ciò che dovrebbe: un essenziale equilibrato servizio ai cittadini. La verità storica sui grandi eventi del novecento è costellata di “verità giudiziarie” che non riflettono, per tanti, quello che fuori dalle aule altri presunti fatti hanno poi fatto intravvedere. Da Ustica a Bologna, dai processi Borsellino alle sentenze su Capaci sono venuti fuori dei colpevoli che hanno pagato o stanno pagando il prezzo di una verità che per molti però non è tale.

E proprio questa duplicità del concetto di verità, quella processuale contrapposta a quella storica, è il sintomo di un limite che si fa fatica ad accettare come l’unico in grado di garantire che vi siano in carcere sempre meno innocenti.

Il processo serve ad accertare se vi sia un colpevole oltre ogni dubbio, non a cercare con animo da inquisitori la “verità”. Nel caso della presunta trattativa è chiaro che se mai vi fossero stati dei contatti, dei discorsi, tra esponenti dello Stato e suoi avversari, altro non erano che attività del tutto coerenti con la necessità di prevenire e perseguire i crimini. Il fatto che lo Stato, che previene e combatte i suoi nemici, anche quando finge di parlarci, sia messo sotto inchiesta da se stesso non è una pagina edificante. Il tutto con atti, come le intercettazioni a carico del Presidente della Repubblica, che testimoniano una grave lesione nei confronti della prima carica dello Stato.

Tutto questo è accaduto proprio per cercare la “verità” mentre, guarda caso, si metteva se stessi al centro di un percorso più luminoso e brillante. E da questo si deve rifuggire. Accertare i fatti, e da essi le responsabilità che ne conseguono, questo è necessario, non cercare la verità a tutti costi, che spesso, proprio per l’esigenza di trovarla, si confonde con la menzogna.

Le cose di mafia, inoltre, sono costellate di diverse verità processuali e vicende storiche difficilmente riconducibili a categorie nitide. Se sia vero o meno che dal 1945 vi sia stato un rapporto tra la mafia ed il potere militare e politico, se vi siano o meno stati intrecci tra le necessità postbelliche delle potenze occidentali ed il potere mafioso non sono fatti processualmente accertabili. Lo scopo è colpire gli autori di crimini assicurandoli alle galere. Riscrivere la storia con le sentenze non è ciò che serve. Serve che si combatta la mafia che pochi giorni fa, silenziosa, faceva galleggiare due tonnellate di cocaina al largo delle coste siciliane, la mafia che oggi pare inabissata, che ha perso con Mattia Messina Denaro il suo “capo” mediatico e che ora si starà già riorganizzando; serve contrastare l’ingresso della mafia sui piani del Pnrr e tenere alta l’attenzione sui capitali della droga che verranno di sicuro riciclati nel tessuto economico. Questo serve allo Stato ed ai cittadini oggi. Del passato dobbiamo occuparci per conoscerlo, dell’oggi dobbiamo preoccuparci per avere un futuro migliore. Quello per cui in tanti da quelle parti hanno dato la vita, quello di cui la mafia, da sempre, vuole impadronirsi.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI