L’inflazione in Europa cala, ma con ritmo lento e contrastato. Il ribasso registrato a marzo è stato netto nell’Eurozona (dall’8,5% annuale di febbraio a quota 6,9%) e in Italia (dal 9,8% all’8,5%). Ma in Germania il calo (al 7,8%) è stato meno pronunciato rispetto alle previsioni (7,5%). E l’ultimo dato dalla Gran Bretagna (fuori Ue ed euro), ha segnalato due settimane fa addirittura un rialzo, di nuovo a due cifre (10,4%).

I comunicati delle authority statistiche – tecnicamente mai contestabili – continuano a essere economicamente scivolosi e politicamente sensibili. Venerdì scorso l’Eurostat ha correttamente sottolineato che l’inflazione “da energia” sembra spenta (-0,9% dopo tredici mesi di guerra in Ucraina). Ma già lunedì la decisione dell’Opec+ di tagliare la produzione di petrolio ha avuto impatti immediati su tutti i mercati, non solo su quello del greggio. E non è mancato chi ha visto nella mossa (spinta anzitutto dall’Arabia Saudita) l’intento di mantenere alta via petrolio la pressione inflazionistica sull’Ue, reduce dal superamento dell’emergenza invernale sul gas. Per gli econometrici, comunque, il 31 marzo la rotta della “disinflazione” a fine anno (attorno al 5%) era confermata. Il 3 aprile una realtà sempre più complessa delle statistiche e dei modelli ha di nuovo rimescolato le carte.

La vera “notizia” dell’inflazione europea alla fine del primo trimestre è però un’altra. La “febbre dei prezzi” rimane elevata nella componente “cibo, alcolici e tabacco” (+15,4% annuo, in aumento su febbraio). È il nervo più scoperto: non solo perché capillarmente reattivo nei bilanci delle famiglie, ma anche nelle loro opinioni. Non ha sorpreso – ad esempio in Italia – che un commentatore come Marcello Minenna (da sempre vicino a M5S) abbia subito accusato apertamente le imprese di speculare sull’inflazione. Le imprese “si nasconderebbero”  dietro gli scenari macro (la crisi delle catene di rifornimento dopo la pandemia, il caro-energia nell’ultimo anno) per allargare i loro margini di profitto.

È un salto di qualità rispetto a una narrazione politico-economica forte negli ultimi mesi. Secondo quest’ultima, l’inflazione e soprattutto le sue aspettative sarebbero da addebitarsi soprattutto ai rialzi salariali e in particolare alle rivendicazioni sindacali sempre più massicce: innescate peraltro dall’inflazione da “energia”. L’incremento tendenziale del costo del lavoro sembra ora “dimenticato” – così come i rialzi già maturati nei prezzi dell’energia, delle altre materie prime e semilavorati e dei tassi d’interesse (costo del credito) – nelle accuse alle imprese di artefare i listini finali di beni e servizi.

Finora la questione (storica) dei “sovrapprofitti di guerra” ha toccato solo i giganti dell’energia: che hanno oggettivamente contabilizzato a fine 2022 utili di livello assoluto e che peraltro sono già stati interessati da tassazioni straordinarie. Ora, invece, la ricerca politico-mediatica di “colpevoli” veri o presunti dell’inflazione sembra sparare nel mucchio di chiunque abbia un’attività d’impresa: comunque reduce da due anni di lockdown più o meno pesanti.

Fatto salvo un solo livello indiscutibile (la certezza di un’equa imposizione fiscale su chi ha realizzato redditi d’impresa, grande o piccola), le cause dell’inflazione (per identificarne i rimedi più efficaci) sono un un terreno che la politica e le parti sociali hanno il diritto-dovere di porre al centro del confronto, ma hanno altresì la responsabilità di non manipolare. Né sul versante dei lavoratori dipendenti (che non sono “agitatori di piazza” quando lamentano l’erosione inflattiva dei loro salari) e neppure su quello delle imprese: che – soprattutto quelle più piccole – non possono essere pre-giudicate come “pescecani” e “untori del carovita”.

Decine di migliaia di insegnanti pubblici inglesi hanno respinto nelle scorse ore un’offerta da parte del Governo conservatore di aumenti salariali in recupero di metà soltanto dell’inflazione corrente. Forse il Governo (non solo quello di Londra) farebbe bene a spiegare ai suoi dipendenti – a tutti gli elettori – che l’inflazione (della benzina, delle verdure nei supermercati, della birra nei pub, dei tassi sui mutui) è il prezzo della guerra che l’Ue e gli Usa hanno deciso di combattere in Ucraina contro l’aggressione russa. Che ha tutte le ragioni per essere continuata fino a quando i Parlamenti democratici dei singoli Paesi e le loro organizzazioni sovranazionali decidono di continuarla. Ma senza – augurabilmente – l’effetto collaterale di scatenare vecchie o nuove “lotte di classe”  a fini elettorali negli stessi Paesi.

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