Una delle cose che mi indispettiscono di più è il lunghissimo elenco di “visto…” che precede qualsiasi provvedimento normativo, e che spesso è più lungo del provvedimento stesso. Bene, ancora questione di poco: presto al posto del “visto…” ci saranno i link a TikTok o a Instagram, e non sono sicurissima che si tratti di un progresso. L’ultimo caso di cui si parla è quello di “mamma Emma”, che, inferocita perché il suo bambino oberato di compiti piangeva, in un momento in cui aveva altro da fare che occuparsi di lui, ha aperto il suo profilo TikTok scagliandosi contro i compiti a casa in generale e quelli per i bambini della scuola primaria in particolare, con cortesi parole nei riguardi dei maestri/e. Questo fatterello mi suggerisce due ordini di considerazioni.

La signora, noncurante della vecchia battuta per cui chi utilizza internet deve innanzitutto accertarsi che il cervello sia collegato con la tastiera, ha messo on line senza por tempo in mezzo un filmato, in cui con una certa incontrollata virulenza ha attaccato oves et boves et universa pecora, mi immagino in presenza del rampollo piangente che si sarà consolato per la pronta difesa della mamma che, intervistata da Orizzonte Scuola, ha affermato che “c’è stato lo sfogo di una mamma soggetta a una pressione, a una responsabilità, a una momentanea impulsività, dovuta, mi creda, a un nervosismo dovuto a motivi personali del momento, che mi ha portato a commettere un errore. Però, al di là dell’offesa, che non ritengo tale perché davvero non era una cosa voluta e dieci minuti dopo neanche ci avrei pensato a pronunciare quelle frasi”. La prossima volta contare fino a cento prima di scrivere, magari… E comunque perché mai le minacce di citazione e la gogna mediatica, visto che lei si è scusata? Parlando con i docenti che aveva maltrattato? Ma quando mai! “C’è stato un silenzio da entrambe le parti. Da parte mia, ho porto le scuse pubbliche. Ho chiesto alla rappresentante dei genitori di invitare i maestri a guardare un programma televisivo pomeridiano dove sono stata intervistata, poiché volevo che vedessero le mie scuse in pubblico. Avevo parlato in pubblico? E dunque mi sembrava doveroso farlo davanti a tutti”.

Sono, lo confesso, perplessa. Di chi dovrebbe essere la responsabilità di seguire il figlio a scuola? Un adulto, sia pure soggetto a pressione, non sarebbe meglio che si sforzasse di controllare i “motivi personali del momento” prima di dare ai figlioletti un brillante esempio di autocontrollo e pacatezza? E, infine, un salto a scuola per scusarsi in presenza no? Mi pare che abbiano dato prova di buonsenso gli insegnanti della scuola, che sono stati zitti e – almeno per il momento – non risultano presenti alla “Vita in diretta”.

Questo fatterello non meriterebbe altro spazio, se non per una mesta considerazione legata al fatto che immediatamente si sono creati due partiti, pro e contro i compiti, e un tema abbastanza rilevante è stato ridotto a oggetto di rissa. E invece. Personalmente, ma non sono un’esperta di didattica, ritengo che la scuola stessa dovrebbe offrire ai bambini, almeno fino alla fine della primaria, o anche della secondaria di primo grado, occasioni di riprendere e consolidare in momenti di studio guidato quello che hanno appreso durante le ore “di lezione”, soprattutto quei bambini che hanno più problemi.

Se una quota preoccupante di quindicenni, pur non essendo mai stati bocciati, mostra di essere uscita da scuola senza saper né leggere, né scrivere in modo autonomo, forse agli insegnanti si dovrebbe chiedere di usare una parte del tempo per controllare gli apprendimenti e per colmare le carenze. E se gli insegnanti non se ne sono accorti, di queste carenze, o comunque non ritengono di dover fare qualcosa, allora mi parrebbe non solo comprensibile ma indispensabile una mobilitazione dei genitori non tanto a favore dei compiti a casa (un buon numero di bambini che raggiungono solo i livelli 1 e 2 di competenze nei test Invalsi vivono probabilmente in condizioni di povertà educativa, e non trarrebbero un gran vantaggio dal lavorare a casa), quanto per l’attuazione di un tempo lungo che consenta di personalizzare e rinforzare gli apprendimenti.

Considero le lezioni private come un modo scorretto di affrontare il problema, non tanto perché seleziona fra chi se le può permettere e chi no, e nemmeno per lo scipito moralismo di chi le considera un’integrazione “in nero” del modesto salario dei docenti, quanto perché la scuola dell’obbligo non è solo quella che i ragazzi sono obbligati a frequentare, ma quella che la collettività è obbligata a fornire loro nel normale tempo di lezione, lasciando le integrazioni a eventuali, pochi, casi particolari.

Mi sembra che le cose cambino durante la secondaria di secondo grado, che ha una struttura in cui le ore di cinquanta minuti, le mattine con sei ore diverse di lezione, l’affastellamento delle materie, lasciano probabilmente poco tempo a un approfondimento personale, che viene affidato ai compiti a casa. Anche in questo caso, però, mi parrebbe più ragionevole mettere a disposizione dei ragazzi gli spazi e le attrezzature scolastiche, a partire dalla biblioteche, con la presenza di un docente in grado di aiutarli: questo perché molti non hanno un metodo di studio, e rischiano di perdere tempo, oppure non sono capaci di capire quali sono i loro punti deboli, o a casa non hanno nessuno in grado di aiutarli quando sono in difficoltà. Anche la disponibilità di supporti domestici varia, e ancora una volta rischia di penalizzare i più deboli.

In ogni caso, tenendo conto che l’orario standard per un lavoratore adulto è di 40 ore settimanali e che i ragazzi ne passano a scuola 30, una dose di lavoro a casa che superi le 10/12 ore settimanali (due ore al giorno esclusa la domenica) è da considerare punitiva, perché non lascia spazio a nessun interesse o attività extrascolastici. Tutto sommato, il lavoro in miniera può essere guardato con occhio meno sfavorevole…

Credo, infine, che non sia possibile standardizzare il contenuto dei compiti a casa, che può variare secondo le materie e anche secondo gli interessi dei ragazzi: certo che la preparazione per le “verifiche” comporta massicce dosi di studio, direbbe l’Alfieri, “matto e disperatissimo”, e sarebbe bene che quantomeno i docenti si accordassero per non accumularle tutte insieme, o nel primo giorno dopo il rientro dalle vacanze: al tempo stesso, però, preparare una verifica comporta per i ragazzi un’assunzione di responsabilità e l’impegno per farcela.

Mentre chiudo queste righe, leggo che al liceo Berchet quest’anno si sono ritirati 56 studenti su 903 iscritti (il 6,2%) e in un’inchiesta realizzata dagli studenti oltre la metà di chi ha partecipato dichiara di soffrire di stress e ansia a causa della scuola, il 53% sente una forte pressione da parte degli insegnanti e il 57% non affronta con serenità le prove orali e scritte. Non mi interessa commentare qui questi dati, magari me lo annoto per la prossima volta, anche perché mi sono diplomata al Berchet nel 1963, ed è inutile dire “ai miei tempi”, perché, come scrive oggi Gramellini, “ I nostri tempi non esistono più. Questi sono tempi nuovi, per i quali servono parole nuove“: ma mi resta il dubbio che le mamme TikTok queste parole nuove per parlare con i figli, e non con i follower, non le hanno e non le cercano.

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