Sant’Agostino in uno dei suoi Discorsi parla della Pasqua di Cristo come di uno stupefacente scambio: “Fece sua la nostra morte e nostra la sua vita”. La nostra morte non indica appena il termine della vita, quell’ora in cui cessiamo di esistere nel nostro corpo, quel limite ineludibile segnato dalla sofferenza, dall’angoscia, dalla solitudine, dall’agonia. È la condizione di morte che accompagna tutta la nostra vita, quella misteriosa contraddizione che tentiamo di rimuovere o esorcizzare con svariati tentativi, descritta invece con drammatica consapevolezza, e quasi con le stesse parole, dal grande avventuriero cristiano Paolo (“C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo: infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”, Rm 7,18s.) e dal poeta pagano Ovidio (“Vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio”, Metamorfosi VII, 20s.).

Il cuore di ogni uomo desidera il bene, la felicità, ma la sua libertà è incapace da sola di raggiungerla. Anzi, nella sua illusione di autosufficienza e di autonomia, l’uomo riproduce nelle vicende personali e nelle dinamiche della storia quel perpetuarsi di menzogna e violenza che sembra destinato a dominare inesorabilmente la vicenda umana con divisioni, ingiustizie, esclusioni di ogni tipo (la cultura dello scarto denunciata da papa Francesco), oppressioni, guerre.

Soffocata dal cinismo e dalla disperazione, attutita dai tanti espedienti di evasione e di illusione offerti dal potere, ammutolita da tanti orrori quotidiani, la voce del cuore, anche insensibilmente, non cessa di essere grido a cui ancora Paolo dà forma eloquente: “C’è qualcuno che può liberarmi da questa condizione di morte?” (cfr. Rm 7,24).

“All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce a ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce” (Papa Francesco). Ascoltando il canto antico “Cristo al morir tendea” risuonare durante la Via Crucis degli universitari di Comunione e Liberazione nei campi intorno al Santuario di Caravaggio, in cui la natura lentamente si risveglia in questa fredda primavera, rivivevo il dramma misterioso della libertà obbediente di quest’Uomo che vive la sua passione per ogni uomo entrando fino alle estreme conseguenze nella sua condizione di morte. Agli occhi del mondo sembra la sconfitta di un povero uomo, finalmente messo a tacere con tutti i mezzi dai poteri per una volta coalizzati insieme (quello religioso, quello civile, quello dell’opinione pubblica abilmente sobillata).

La pietra, dura come il cuore dell’uomo, posta a sigillo del sepolcro sembra segnare la fine della vicenda di quest’Uomo che aveva suscitato nella sua vita tanta speranza. Un silenzio di morte avvolge l’esistenza del mondo. Dio è morto…

È ancora nel silenzio che la risurrezione, l’evento cosmico che, dentro alla storia, riapre la storia per sempre, accade, senza clamore, senza testimoni diretti, tanto da poter apparire non come fatto reale, ma come una favola consolatoria, un’autosuggestione di seguaci che non vogliono rassegnarsi definitivamente alla disfatta del loro Maestro.

È Cristo risorto che si fa vedere, che si fa incontro alle donne corse al sepolcro per imbalsamare un cadavere, ai due di Emmaus che, tristi, durante il cammino insieme non lo riconoscono per ore, ai suoi amici nascosti e terrorizzati dalla prospettiva anche del loro annientamento. Si fa vedere nella sua realtà corporea, nella carne che porta ancora i segni dei terribili supplizi, che chiede di essere nutrita con del pesce arrosto, eppure non è più soggetta ai condizionamenti normali di tempo e di spazio. Non è appena un ritorno alla vita come quello di Lazzaro, è l’inizio di una Vita nuova che investe, incontro dopo incontro, la vita dei suoi, generando il riconoscimento della loro fede, rendendoli parte della sua Persona, inizio di una unità inconcepibile e mai prima realizzata, una realtà nuova di comunione, inizio di una “realtà etnica sui generis” come ebbe a descrivere la Chiesa Paolo VI.

Restiamo stupefatti da questo “metodo sommesso” (Ratzinger), apparentemente così poco efficace rispetto alla forza del potere, alla pervasività dei suoi strumenti sempre più raffinati di propaganda e di seduzione. “Perché devi rivelarti a noi e non al mondo?” gli chiede, sconcertato al pari di noi, uno dei suoi discepoli (cfr. Gv 14,22). Cristo non cerca il consenso di “followers” o l’egemonia mondana, ma l’amore libero del cuore afferrato dalla eccezionalità della sua Presenza (“Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi?” si diranno i due di Emmaus, mentre ritornano nel cuore della notte alla insicura Gerusalemme da cui solo poche ore prima volevano allontanarsi).

Al discepolo dubbioso del suo strano approccio per rivelare il suo potere, Cristo risponde con la logica dell’amore che mendica di essere liberamente accolto: “Se uno mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Nella dimora della compagnia umana generata esclusivamente dalla fede in Lui, fragile segno luminoso nelle tenebre del mondo, vibra il seme della Vita vera, che, incontro dopo incontro, fa vivere la vita del mondo della stessa vita di Dio, ricomincia a scrivere ogni giorno la sua vera storia in cammino verso il Destino buono. Buona Pasqua.

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