C’è un’impresa, in Italia, che ha più di un milione di dipendenti: l’ultimo rinnovo del contratto, nel 2018, ne calcolava esattamente 1.191.164, con una minima frazione di dirigenti, meno dell’uno per cento. Le filiali sono più di ottomila, ma gli sportelli che erogano il servizio sono più di quarantamila. Si stima (dati recenti non ce ne sono) che circa due su tre dei dipendenti siano laureati. Sto ovviamente parlando della scuola, che è senza dubbio la più grande impresa italiana, quella a maggior densità di qualificazione, e che ha come prodotto non solo l’educazione ma la qualificazione dei cittadini: eppure non si parla mai di “mercato del lavoro” della scuola, anche se gli insegnanti sono più numerosi dei tassisti e dei balneari, su cui si discute da anni… Si agisce per colmare i vuoti, in modo spesso approssimativo; la formazione iniziale cambia continuamente e non viene valutata; non esiste una carriera se non gli avanzamenti legati all’età; ogni tentativo di differenziare le funzioni o di premiare la qualità del lavoro è, finora, andato a vuoto.
Pare evidente che qualsiasi impresa condotta in base a questi criteri sia destinata a un inevitabile, e probabilmente rapido, fallimento: la scuola statale non può fallire, ma non si può pensare che funzioni bene o che eroghi un servizio di qualità. Aggiungerei che, mediamente, non si può chiedere ai dipendenti di lavorare con entusiasmo: il numero, la tipologia, la distribuzione e la retribuzione del personale sono decisi dal centro e non modificabili né da parte dei lavoratori, se non attraverso la contrattazione sindacale centralizzata, né dalle “filiali”, cioè le scuole, né tantomeno dall’ utente-famiglia, che in caso di insoddisfazione per il servizio può solo andarsene, a sue spese, nel settore paritario.
Si potrebbe provare a ragionare seriamente sul mercato del lavoro delle professioni educative, non perché si abbia una visione riduttiva della scuola, ma – poiché è noto che il modello di erogazione del servizio esercita un’influenza reale sugli apprendimenti – per trovare un modello più flessibile ed efficace. Per la scuola statale questo potrebbe significare introdurre finalmente una seria politica del personale, la cui mancanza ha avuto come conseguenza la proletarizzazione della professione docente, che è passata da una posizione di prestigio sociale medio alto a una “seconda scelta” diffusa fra le categorie “deboli” ad alta scolarizzazione (donne, laureati di materie esterne all’area STEM) o nelle aree in cui la domanda di lavoro è minore, segnatamente il Sud e le Isole. Questa situazione genera una serie di patologie che si riflettono sulle aspettative nei confronti del lavoro, in cui si valorizzano in misura crescente gli aspetti assistenziali: sicurezza del posto, mobilità tutelata, controllo ridotto.
Eppure, ancora molti giovani vorrebbero insegnare, ma si scoraggiano di fronte a un futuro non solo di precarietà, ma di appiattimento: perché non valorizzare allora la domanda di professioni educative nel settore privato (non solo scuole, ma imprese, associazioni, enti vari) che è stata raramente esplorata? Si tratta, direbbero gli economisti, di un approccio market driven che viene normalmente trascurato, ad esempio nel valutare le conseguenze occupazionali di un’estensione del finanziamento alla scuola paritaria, perché lo schiacciante dominio della scuola statale ha portato a considerare inevitabile un mercato guidato dall’offerta: per riprendere la definizione mai veramente contraddetta di Barbagli (1974), “la scuola italiana converte in insegnanti i laureati in sovrannumero”, ed esercita funzioni dominanti di regolazione del mercato del lavoro intellettuale. Da questo punto di vista, prendere in considerazione un più ampio ventaglio di prospettive, oltre a rendere più attrattive le professioni della formazione, potrebbe ridimensionare le tensioni sulla creazione di un sistema integrato. Stanno emergendo profili nuovi e di successo, come quello del coaching, che hanno vie di accesso non ancora istituzionalizzate, e meccanismi di controllo carenti, mentre la centralità della formazione e la delicatezza degli interventi richiederebbero protocolli rigorosi.
Quali professioni vengono domandate nel settore della formazione? Quali competenze vengono loro richieste? Dove trovano occupazione? Si trovano facilmente o sono di difficile reperimento? Come si sono modificate nel tempo? Come sono influenzate dalla diffusione delle ICT? La distribuzione della domanda ha i medesimi andamenti dell’offerta, o mette in evidenza fenomeni diversi? Rispondere a queste domande è un buon punto di partenza per una seria riflessione su questo settore così cruciale.
Vorrei però chiudere con un esempio emerso da una chiacchierata fra amici. Attualmente esistono in Italia alcune centinaia di scuole sottodimensionate o “neodimensionate” (da questo punto di vista la creatività del ministero è eccellente) che non hanno diritto a un dirigente, ma solo a un vicario, e vivacchiano stentatamente anche se magari hanno un’importanza grande nel territorio e sono fortemente innovative. Oppure una piccola scuola paritaria decide di chiudere perché in mancanza di finanziamenti non riesce a vivere. Perché non ricorrere a meccanismi analoghi al workers buyout, che si ha quando i dipendenti rilevano un’impresa per non farla fallire? Molte regioni hanno già stanziato ingenti fondi a questo scopo, e penso che gruppi di giovani insegnanti, o anche di insegnanti e famiglie (secondo il meccanismo delle scuole charter) sarebbero disponibili a rischiare, se avessero un finanziamento iniziale. Non si tratta solo di creare posti di lavoro, ma di svolgere un compito fondamentale per la vita della società civile e delle persone, e sarebbe importante sentire la voce dei non-ancora-insegnanti.
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