Anche questo turno elettorale, che ha interessato 595 comuni di cui 13 capoluoghi, si è concluso sotto il segno dell’astensionismo. Ha votato il 59% degli aventi diritto, 2 punti percentuali in meno rispetto al 61,22% delle passate amministrative. Le interpretazioni che circolano sottolineano elementi noti da tempo: si parla di disaffezione e sfiducia nei confronti della politica, considerata corrotta e incapace di vedere e di risolvere i problemi delle persone. Altri invece pensano che non viviamo più in una vera democrazia: le decisioni sono prese da élite economiche e lobbies di potere, che scavalcano e strumentalizzano qualunque amministrazione comunale, regionale e del governo centrale. L’esito di queste posizioni è comune: l’astensione per protesta, disinteresse, distrazione, noia.
Ma bastano queste spiegazioni a dar ragione di quanto sta capitando? La mia esperienza mi suggerisce altro.
Mi capita sempre più spesso di frequentare persone di diverso tipo, per occupazione e per tipo di orientamento culturale. Non solo le frequentazioni individuali, ma anche quelle di gruppo sono sempre più caratterizzate da un grande pluralismo: le convinzioni ideali, politiche e religiose sono le più varie. Non ci si ritrova perché si ha in comune la stessa visione della vita e nemmeno per realizzare progetti comuni. Anzi, per alcuni versi, potrebbe sembrare che il ritrovarsi in lunghe cene a chiacchierare sia una perdita di tempo. Perché continuo a farlo, considerando tutti gli impegni che mi assillano? Sicuramente per conoscere punti di vista diversi su quanto avviene nel mondo. Ma non solo per questo.
Credo che stia crescendo in me e in tanti altri il desiderio di condividere più sistematicamente i “motivi nobili della vita”, quelli che riguardano il desiderio di verità, di giustizia, di bellezza, di costruzione del bene.
Per questo capita di porsi in gioco realmente, mettere in comune quello che di solito si tiene per sé, la propria esperienza, e non solo i pensieri sul mondo. Ne nascono discussioni vivaci, appassionate, il tempo scorre via veloce e quando è ora di andarsene si avrebbe ancora tanto da dire. Capita che alcuni invitino altri amici, come si fa quando si ha qualcosa di prezioso da condividere, più prezioso di qualunque altro interesse, professionale o di svago. Non vige una forma di diplomazia ipocrita, ma la ricerca di un’autenticità. Per questa ragione ci si sta affezionando. Ci si vuole bene.
Uscire dal proprio guscio, anche ideologico, mettere in comune il proprio desiderio di bene, fa nascere l’esperienza che Aleksandr Isaevič Solženicyn descriveva così in “Reparto C”: “A volte sento con chiarezza che in me non tutto sono io. C’è qualcosa di indistruttibile, di altissimo! Un frammento dello Spirito universale. Lei non lo sente?”.
Nella prefazione all’ultimo libro di Carlo Petrini e Gaël Giraud, papa Francesco afferma: “È la conversazione che diventa occasione di crescita […]. È il dibattito il momento in cui maturiamo, non l’ermetica certezza di essere noi quelli sempre nel giusto”.
Che cosa ha a che fare questo con l’astensionismo? Penso che esso dipenda fondamentalmente dalla mancanza di luoghi come quelli che ho descritto, animati da persone impegnate in dialoghi apparentemente senza rilevanza ma che in realtà, alla lunga, sono quelli che permettono a un tessuto sociale di rinascere.
È già avvenuto nella storia: pensiamo a “Il Caffè”, la rivista milanese che a metà Settecento ha segnato una svolta divenendo portavoce delle istanze culturali, sociali e politiche delle classi emergenti, e ha diffuso in Italia un pensiero illuminista amico dell’uomo, del progresso e anche della fede.
Mettersi insieme, condividere la vita e confrontare le idee può ridare il gusto per la convivenza pubblica. E quindi anche per la politica.
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