Da poche ore la mia biografia non scientifica di don Giussani, “El ímpetu de una vida” (“L’impeto di una vita”), è nelle librerie spagnole. In realtà, usare la parola biografia in questo caso sarebbe pretenzioso, piuttosto si dovrebbe parlare di «scene della vita del fondatore di Comunione e Liberazione». Questo volume è assolutamente dipendente dal grande lavoro di ricerca condotto negli scorsi anni da Alberto Savorana.

Mentre mi documentavo per scrivere, ho riscoperto il valore di qualcosa che è noto ai tanti che hanno conosciuto questo grande personaggio del XX secolo. Giussani, in molti dei suoi interventi, ha fatto riferimento a eventi della propria vita. Ce ne sono così tanti che si potrebbe quasi costruire un’autobiografia. Sempre, anche negli ultimi momenti della sua malattia, ha compiuto un esercizio di memoria sugli anni trascorsi con la famiglia a Desio, sulla vita in seminario, su tanti momenti essenziali che hanno segnato la sua vita. Questo esercizio continuo non è solo un ricordo di ciò che si è vissuto, ma è il ricordo di un’esperienza.

Come spiegò lui stesso nel 1963, l’esperienza è vivere ciò che fa crescere. L’esperienza, quindi, implica accorgersi che si sta crescendo. E questo in due aspetti fondamentali: la capacità di comprendere e la capacità di amare. C’è sempre in Giussani un giudizio di fronte alle circostanze. Questo modo di costruire, di essere costruito, assolutamente storico, era agli antipodi dell’ambiente ecclesiale in cui viveva. Risulta ancora strano per chi considera il cristianesimo come un “a priori”, un insieme di nozioni dottrinali, un sistema di valori o la base di un progetto politico o culturale.

Le circostanze giudicate diventano un metodo educativo, uno sviluppo del carisma che gli è stato concesso. Molti di quelli che oggi leggiamo come testi fondamentali sono nati di fronte a un problema specifico, da un’assemblea o dalla necessità di rispondere ai propri studenti. La circostanza per Giussani è una vocazione. E ciò che sorprende, ripercorrendo i momenti essenziali della sua vita, è che la prima circostanza è la sua stessa umanità. Non la censura mai, la usa sempre per maturare e far crescere la sua fede.

Prima di iniziare a scrivere ho voluto percorrere i corridoi del seminario di Venegono, dove ha studiato e vissuto. E in quel momento mi sono ricordato della sua insistenza: solo una presa di coscienza attenta, tenera e appassionata di me stesso può aprirmi ed essere disponibile a riconoscere, ammirare, ringraziare e vivere Cristo. Lo diceva l’uomo che in gioventù aveva pianto quando era andato a letto perché non sarebbe mai stato come Beethoven, che aveva vibrato con i versi dell’ateo Leopardi, l’anziano che si “innamorava” dei camerieri o che non trascurava la provocazione che comportava l’essere diventato una persona dipendente.

Passeggiando per Venegono mi è venuta in mente la nitida chiarezza con cui Giussani aveva sperimentato che l’uomo, da solo, non può essere uomo. Credo che se non avesse sofferto la solitudine causata dall’insufficienza delle cose, la sua passione per la presenza di Cristo non si sarebbe sviluppata, non avrebbe sviluppato un percorso educativo originale, nuovo e provocatorio per l’uomo contemporaneo.

L’attenzione e la tenerezza verso la propria umanità, verso la musica, verso i poeti, verso gli amici che lo facevano vibrare, verso l’abisso del nulla che con malinconia si insinuò in un pomeriggio ventoso in riva al mare diventano, come lui stesso dice, la possibilità di riconoscere Cristo. Siamo introdotti agli ideali – era solito dire – attraverso il gusto. Mi sembra che questo modo di vivere, in prima persona, lo abbia allontanato da ogni clericalismo. In uno dei suoi interventi a un gruppo di futuri sacerdoti, disse: qual è la prima condizione per trasmettere Cristo agli altri? Essere veri uomini. In una delle sue visite a Madrid, ha anche sottolineato: quello che dico lo dico perché sono un uomo.

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