Ma non è che questo papa ha la fissa dell’autoreferenzialità? Prendiamo il discorso che Francesco ha rivolto ai “referenti (ma proprio referenti li dovevano chiamare?) diocesani del cammino sinodale italiano”: “Parrocchie troppo autoreferenziali”, “Autoreferenzialità malattia della Chiesa”: Hanno titolato così, più o meno, tutti i media che ne hanno dato notizia.
Ecco le frasi più gettonate: “A volte si ha l’impressione che le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora un po’ troppo autoreferenziali. E l’autoreferenzialità è un po’ la teologia dello specchio, maquillage… è una bella malattia che ha la Chiesa”. E in aggiunta il Pontefice cala un carico da undici: “Sembra che si insinui una sorta di neoclericalismo di difesa – il clericalismo è una perversione, e il vescovo, il prete clericale è perverso, ma il laico o la laica clericale lo è ancora di più; quando il clericalismo entra nei laici è terribile!”.
In realtà, non è questa la prima volta né sarà, verosimilmente, l’ultima. Googlando un po’, si rintracciano facilmente decine e decine di messe in guardia dall’autoreferenzialità. Ognuna con una sua peculiare sottolineatura, Ce n’è per tutti. Qualche esempio random. Ai Fatebenefratelli, 2019: “L’autoreferenzialità vi porterebbe a chiudervi in voi stessi, non fate del vostro ordine una riserva chiusa”. In una catechesi del mercoledì, 2018: “Dio esaudisce chi ha fede, non le richieste autoreferenziali, le pretese di logiche mondane”. Agli Istituti di vita consacrata, 2021: “La vita religiosa è un incubo se diventa autoreferenziale”. Ai ciellini, 2015: “L’autoreferenzialità spinge a una spiritualità di etichetta”. Ai focolarini, 2021: “L’autoreferenzialità può essere copertura di abusi di potere, impedisce di vedere gli errori, frena il cammino”.
In sostanza, in tutti i casi, autoreferenzialità è mettere al centro se stessi al posto del Fatto di Cristo.
Meno “mediatico” è il resto, anzi il grosso, del discorso. Esso indica in positivo lo scopo ultimo cui tendere: “Comunità ecclesiali più missionarie e più preparate all’evangelizzazione nel mondo attuale”; e il metodo, scandito in tre consegne: “Camminare”, “Fare Chiesa insieme”, “Essere una Chiesa aperta”.
“La Chiesa stessa è movimento” (Giovanni Paolo II), non statica burocrazia.
Per Francesco, la “consapevolezza di camminare nella storia in compagnia del Risorto” rende la comunità non tesa a salvaguardare i propri assetti e interessi, ma a “coltivare la libertà e la creatività di chi è testimone del Vangelo. Che contrasto quando la nostra vita spegne la vita delle anime” (don Mazzolari).
“Fare Chiesa insieme” vuol dire che protagonista deve essere tutto il popolo di Dio, non i gestori “qualificati” dell’azione pastorale. Una Chiesa dove tutti si sentano a casa.
Una Chiesa aperta vuol dire saper incontrare e accogliere chiunque. Una Chiesa “inquieta nelle inquietudini del nostro tempo”. “Vi auguro di non essere mai più tranquilli” (don Giussani, 1985, al Meeting di Rimini).
Ma, ci si può domandare, chi è, e dov’è, se c’è, il soggetto di questo “nuovo inizio” che il Papa auspica e chiede? Le parrocchie sono sempre più vuote, e vengono accorpate per far bastare i preti. Anche ordini religiosi si accorpano per mancanza di vocazioni. La cresima è diventato il sacramento del congedo dalla Chiesa. Gli oratori sono pieni di ragazzini quando è estate, perché sono un servizio sociale sostitutivo della permanenza a scuola, affidabile e a buon mercato. Iniziative di volontariato, prevalentemente senili ma non solo, non mancano: non è scontato che siano testimonianza di carità cristiana.
Della questione delle “chiese vuote” non si ama molto ragionare. Mugugno, lamento, ah che gente, i giovani poi…; rassegnazione, senza cavare un ragno dal buco: il consumismo, la secolarizzazione… Che fare? Sembrano spariti (tranne che sui social) i fautori della ricetta progressista e quelli contrapposti della ricetta tradizionalista: quelli che “la Chiesa è ferma al celibato dei preti, alla guida gerarchica, al maschilismo e alla vecchia morale sessuale”, e quelli che, al contrario, “la Chiesa dopo il Concilio e sommamente con questo Papa vacilla nella dottrina e cede sui principi non negoziabili”.
Ora, provate a convincere un ragazzo o un giovane ad andare in Chiesa perché c’è la messa in latino o, viceversa, perché celebra una donna… In ogni caso Benedetto e Francesco hanno sottolineato che la Chiesa si diffonde per attrazione, non per proselitismo.
Sulle “chiese vuote” ha coraggiosamente aperto, un paio d’anni fa, un dibattito serio L’Osservatore Romano. In vario modo diversi interventi hanno messo l’accento non sui fattori di contesto (il tipo di società), né sulle “strategie comunicative e pastorali”, ma su una riduzione o una insufficienza dell’annuncio cristiano stesso. Una crisi che, come ha scritto Lucio Brunelli, “inizia quando le Chiese erano piene”. Quando si era cristiani per tradizione, ed essere cristiani significava credere ai dogmi e osservare la morale, specie sessuale. Motivazione principale: la paura dell’inferno. Non usava parlare di senso religioso (lo fece il cardinale Montini per la Missione a Milano nel 1957 e ci scrisse un libro fondamentale don Giussani); parlare di esperienza poi era avversato come cedimento al modernismo.
Questo tipo di proposta cristiana sancisce (e di fatto sancì) la divisione tra divino e umano, tra fede e vita; una fede che non si annuncia e si documenta – attraverso i testimoni – come pertinente alle esigenze della vita, non è neanche più osteggiata: semplicemente non è presa in considerazione. L’unica possibilità che succeda diversamente è imbattersi in una presenza la cui eccezionale, inspiegabile umanità arriva dritta al cuore. Funziona così l’incontro con Cristo. In Galilea duemila anni fa come oggi qui.
Soggetto di una Chiesa in missione è imprescindibilmente la persona, e la sua educazione (permanente) alla fede. Ecco, dell’educazione alla fede mi piacerebbe si discutesse per il Sinodo e al Sinodo.
Perché o si va al cuore della questione o tutto il resto… è disco dance. Pardon: autoreferenzialità.
PS – Tante parrocchie sono così autoreferenziali che i discorsi del Papa, questo compreso, non vengono mai neanche citati per sbaglio. E così pure di tutto l’ambaradan sinodale non è fatto cenno. Ubi maior… fai da te?
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