Nel “decreto lavoro” varato dal Consiglio dei ministri il Primo maggio sono compresi molti provvedimenti e non di peso solo simbolico. Il taglio del cuneo fiscale su redditi da lavoro e la rimodulazione del Reddito di cittadinanza erano passi attesi, dovuti in quanto promessi da un Governo politico, uscito dopo molti anni da una netta vittoria elettorale.
È stata la stessa Premier Giorgia Meloni, tuttavia, a riassumerne il significato politico-economico nel “taglio delle tasse più importante degli ultimi decenni”. Sia o no un’affermazione statisticamente corretta, la parola-chiave è “tasse”, non “lavoro”. Per via fiscale, il decreto è infatti intervenuto principalmente sui “redditi da lavoro” e non a caso i titoli dei media sono stati centrati sulle decine o centinaia di euro che i lavoratori (esistenti) ritroveranno nel loro reddito disponibile (non troppo diversamente da quanto avvenne nove anni fa al debutto del Governo Renzi).
Nel decreto ha così preso forma un oggetto politico che certamente sarà intercettato dall’intero elettorato. Ma non è neppure la premessa di una riforma fiscale – peraltro messa in agenda – che ristrutturi organicamente la pressione tributaria su famiglie e imprese e la alleggerisca nel medio periodo. E – soprattutto – non vi sono tracce di impulsi effettivi di stretta “politica del lavoro”, in una pur lunga lista di misure imperniata su parziali retromarce: come l’allentamento delle strette imposte dai precedenti Governi ai contratti a tempo determinato e all’uso dei voucher.
Fra “fondi nuove competenze” allo smontaggio burocratico del “decreto trasparenza” a carico delle imprese, le attenzioni sono tutte giustificate Ma tutti assieme, i 16 punti d’azione contati nel decreto non sembrano creare massa d’urto strategica. Soprattutto: non sembrano puntare prioritariamente all'”occupazione”, alla generazione di “nuovo lavoro”. Solo un passo in più ed è nelle “politiche attive per il lavoro”: obiettivo del Jobs Act, cioè l’unica vera riforma economica varata in Italia varata in Italia dopo il 2011.
L’intera ultima legislatura – su impulso di M5S, primo partito, e complice l’emergenza Covid – è stata dedicata a demolire o congelare il disegno di superamento di periodo medio-lungo del controllo del mercati del lavoro da parte dello Stato centrale, a favore di una rete multidimensionale e ammodernata di soggetti intermediari e modelli pubblici e privati. Il rigido assistenzialismo statalista implicito nel Reddito di cittadinanza – aggravato dalla recessione pandemica – ha di fatto cancellato la politica del lavoro dall’agenda di governo.
Il “decreto lavoro” dell’1 maggio 2023 ha confermato che il nuovo Governo di centrodestra considera conclusa quella stagione e che la crescita occupazionale implicita nello “sviluppismo” del Pnrr non può che scaturire da una riattivazione, da una “riscoperta” del mercato del lavoro. I cui principali protagonisti rimangono le imprese e le organizzazioni sindacali. Però la politica non può pensare che basti il decreto per giudicare assolte le sue responsabilità su questo fronte. Qui il lavoro del Governo (ma anche di una vera opposizione) sembra ancora all’inizio.
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