Giovedì e venerdì 11 e 12 maggio si svolgono gli Stati generali della natalità, giunti alla terza edizione. L’Italia è il Paese europeo dove si nasce di meno e perciò è sempre più fatta di vecchi. Stiamo correndo verso un precipizio e bisogna assolutamente trovare il modo di invertire la tendenza. Non a caso tra i partecipanti spiccano i nomi di papa Francesco e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni (nella passata edizione c’era stato Mario Draghi). Non mancheranno ministri e leader politici, insieme a studiosi (a partire dal presidente dell’Istat Blangiardo) ed esponenti della società civile.
È da augurarsi che l’evento sia seguito dai media con la massima attenzione. Infatti il problema affrontato compendia in qualche modo (quasi) tutti gli altri, perché è decisivo per il destino della nostra comunità e ci riguarda tutti.
Gli ultimi dati Istat dicono che nell’ultimo anno in Italia ci sono state 393mila nascita e 713mila morti: la popolazione è scesa di oltre 300mila unità. Il fenomeno è iniziato negli anni 70 e si è accentuato a partire dal 2008. In tempi passati, neanche durante la seconda guerra mondiale c’erano stati più morti che nati, ma solo durante la prima, che provocò la morte di 650mila giovani uomini. Siamo scesi sotto i 60 milioni e le proiezioni dicono che di questo passo nel 2050 saremo 51 milioni e fra 50 anni 39 milioni.
Numeri che fanno un certo scalpore. Ma non è tanto una faccenda di numeri assoluti, quanto piuttosto di crescente squilibrio del sistema sociale: sempre meno forze attive che producono ricchezza e sempre più anziani da sostenere con pensioni, sanità e welfare, in presenza di un debito pubblico notoriamente assai elevato. I ragazzi nati negli anni 2000 avranno sulle spalle un carico insostenibile. Per di più la denatalità è un mostro che si autoalimenta: con meno nascite, negli anni si avranno meno giovani donne in età fertile; ciò produrrà ancora minori nascite, e via così in una spirale micidiale.
Cause (e rimedi) sono di due ordini: socio-economico e antropologico-culturale.
Sul primo versante, risulta che si rinuncia al figlio perché ci si sente insicuri a riguardo del lavoro e del reddito, e per l’elevato costo della casa. Casa e lavoro (per entrambi i coniugi; con un solo stipendio ormai da decenni una famiglia non tira a alla quarta settimana) sono le due grandi criticità a livello di sistema: l’attuale modello capitalistico-liberista, a livello internazionale, produce non solo merci ma bisogni e scarti. Quando si parla giustamente di sviluppo sostenibile bisognerebbe avere in mente non solo la salvaguardia dell’ambiente e delle specie animali, ma anche della famiglia.
Quanto alle specifiche politiche familiari, i governi italiani hanno sempre messo in campo interventi frammentati e spesso di breve durata (vedi la giungla dei bonus), mirati a singoli bisogni o emergenze (dagli occhiali al monopattino) senza una visione adeguata del ruolo della famiglia nella società e senza un quadro organico di provvedimenti.
Le leve che vengono utilizzate sono soprattutto agevolazioni fiscali, sostegni economici diretti, misure di conciliazione lavoro-famiglia, cura della prima infanzia. La leva fiscale è (cautamente) usata, ma ha il limite di non agevolare le famiglie a reddito molto basso, per mancanza di capienza. L’assegno unico recentemente introdotto in Italia è visto generalmente con favore, ma da più parti si chiede di aumentarlo (il suo livello base è 50 euro a figlio contro i 200 della Germania). I congedi di maternità ci sono; quelli di paternità pochissimo usati. Questione di mentalità, forse. Gli asili nido non bastano e sono generalmente molto cari: beati quelli che hanno nonni in buona salute. Da ultimo è emersa la proposta di una detrazione fiscale imponente, ma l’ipotesi per ora è solo allo studio.
Siccome siamo per natalità fanalini di coda in Europa, possiamo avere l’umiltà di copiare dai nostri vicini le migliori pratiche. Per esempio il meccanismo degli assegni in Germania che hanno effettivamente frenato il calo delle nascite; per esempio la Francia, che ha il tasso di fertilità più alto in Europa (1,8 figli per madre) grazie a una lunga tradizione di politiche integrate e durevoli, orientate anche al “quoziente familiare”, che certamente è un criterio di equilibrio e giustizia che considera la famiglia come soggetto e risorsa, non come un accessorio e un costo.
C’è da augurarsi che da questi imminenti Stati generali escano idee e proposte di peso, e che la politica sappia valutarle e assumerle con la responsabilità di chi guarda al futuro del Paese e non ai like sui social di un quarto d’ora dopo.
Poi, dicevamo, non può essere ignorato il versante antropologico e culturale. Da più indagini risulta che quasi tutti i giovani hanno il desiderio di avere figli. Molti poi spesso vi rinunciano o si fermano al primo. Il desiderio non regge di fronte alle difficoltà oggettive, alle difficoltà temute, al timore delle rinunce e dei sacrifici da fare. Non fa meraviglia. Nella società dell’opulenza e dello scarto, del consumismo e della povertà, la generatività non nasce da un ethos consolidato o da un dovere morale, o da un’ovvietà indiscussa. Men che meno da un corso fidanzati. La generatività, soprattutto oggi, fiorisce solo da un’esperienza di bellezza, di vita come dono trasmesso da un padre e una madre che così hanno compiuto se stessi e hanno preso cura del proprio figlio per amore del suo destino. Un’esperienza di vita che ha senso perché non si chiude nell’autoreferenzialità, ma si apre all’altro accendendo nuova vita.
Con questa coscienza, il naturale desiderio di generare più difficilmente, credo, si arrenderebbe. Comunque di giovani così ce n’è. Ecco, bisognerebbe copiare anche da loro, non solo dalle politiche francesi.
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