Non si è mai fissato, il Dio cristiano, sui peccati dell’uomo. Quella specie di “prurito dal balcone” non è mai stata la sua passione: lo diventerà, purtroppo, di una parte della sua Chiesa nei secoli a venire, in misura maggiore nell’angustia dei confessionali. Lui, invece, non si è mai impuntato sui peccati dell’uomo, per un semplicissimo motivo: incenerito l’uomo, gli sarebbe venuto a mancare il suo unico alleato nella grande guerra di stanare e sconfiggere il Male dal mondo.

Lo stesso peccato – che il grande dottore Agostino definirà, scandalosamente, una felix culpa – rese ancora più ricco Dio, introducendo un qualcosa di nuovo nella sua avventura umana: la pecorella perduta, l’uomo peccatore. La vita debilitata.

Poi, sul finir della sua vita quaggiù, sentì il bisogno di fare, ancora una volta, un qualcosa che nessuno avesse mai fatto. Che nessuna divinità fosse mai stata in grado anche soltanto d’immaginare: si fece mangiare dagli amici suoi. Per fare questo non avvertì nessun bisogno di avere le autorizzazioni ecclesiastiche. Fece tutto da Sé, si autorizzò da solo: che nessuno potesse mettere un freno a questo suo sogno testardo e impossibile. Quello di stare per sempre con la sua umanità. Anche se questo, a conti fatti, Gli costerà sempre caro. Carissimo.

Nel sentirselo dire, gli amici sbarellarono di troppo stupore: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”. Loro, abituati sin dalla più tenera età a mangiar pesci, datteri, riso in bianco, nel giro d’una cena fu loro proposto di mangiar la carne di Cristo: “Il corpo di Cristo (Amen)”. Lì per lì non capirono granché: la loro bocca non era ancora preparata alla dolce sensazione di quella carne, alla purezza di quel gusto mai provato prima d’allora. Pietro e la sua compagnia pensarono a quando la gente, stravaccata al porticciolo della loro Genezareth, leggeva la pubblicità del loro pesce affisso alla serranda del loro chiosco: “Dimmi che pesce mangi e ti dirò chi sei”. Era una loro tecnica per far passare l’idea che il loro era il pesce migliore, quello che al solo mangiarlo li avrebbe resi diversi da coloro che invece avrebbero mangiato altri pesci.

Non immaginavano, loro signori, che dopo tre anni, vedendoli masticare le molliche di quel Pane, quella frase sarebbe diventato il loro esame di maturità: perché se mangi Cristo, quello è un cibo che non ti lascerà più come prima. La scoperta avverrà immediata: mangiare, nel caso di Cristo, è come incorporare un territorio, è dichiararsi cittadini di una storia, è schierarsi apertamente al mondo.

Fu il grado massimo dell’umiltà del Cristo: più ancora della morte in croce, della non reazione agli sputi, della dolcezza con cui rispose alla vigliaccheria, fu questo suo gesto ad arrecare scandalo all’umanità: “Mangiami, saremo noi due per sempre!”. Si era saputo di qualcuno che fosse riuscito a sedurre con ciò che aveva offerto da mangiare: nessuno, però aveva iniziato a destare un appetito spiegando che cosa sarebbero stato loro proposto di mangiare: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda” (cfr Gv 6,51-58).

Ancora oggi, per chi è cosciente di cosa accoglie dalle mani indegne del sacerdote, questo Pane resta lo stupore imprevisto di una felicità che si pensava impossibile anche solo da immaginare: Dio dentro noi, l’Eterno rintanato nello sgabuzzino del corpo. Cristo a sgomitare nell’intestino tra migliaia di altri gusti, sapori, avanzi. “Il corpo di Cristo (Amen)” e lo schiacci dolcemente tra la lingua e il palato. Lui inizia a sciogliersi come un amante dagli occhi a forma di cuore: si fonde sul palato bagnato e molle, sfiora le tonsille, s’infila nell’esofago e infine va a deporsi nello stomaco. Che, se solo sapesse di che stoffa è fatto quel Pane, riderebbe di folle contentezza.

Questa debolezza non è mai stata una fatalità: sin dall’inizio è stata una scelta, la scelta di chi volle mostrare in diretta come i fallimenti possano divenire il terreno delle nostre risurrezioni. Nell’avventura con Cristo, nulla sarà mai più impossibile.

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