Maturità, quel banco dove tutto finisce e tutto comincia

L'esame di Stato, la "maturità", continua ad essere per i giovani un appuntamento che ricapitola la vita. Tra vittorie, promesse tradite, desiderio di un Bene grande

Non è un caso che l’esame di Stato che conclude la scuola secondaria di secondo grado sia ancora oggi comunemente chiamato “maturità”. Non serve essere sociologi o pedagogisti per comprendere che in quest’esame continua a sussistere un appuntamento simbolico con la vita, che passa e che non torna più. Improvvisamente sfilano davanti agli occhi di uno studente gli anni trascorsi insieme, le fatiche e i dolori, i momenti di euforia e quelli di clamorosa sconfitta: alle superiori, infatti, si comincia ad amare davvero, alle superiori si prendono i primi “pali”, alle superiori si ha paura del giudizio degli altri, si prova vergogna per le “figure” che si fanno e – a tratti – si resta delusi nello scoprire come va il mondo.

Nei giorni immediatamente prima dell’esame tutto questo, però, diventa aneddoto, folklore, gratitudine: si fa strada l’idea che tutto quello che è successo, è accaduto perché ciascuno potesse diventare più grande e più responsabile.

Gli adulti, certamente, sono ancora tutti lì: non se sono andati, non sono scomparsi, vivono accanto ai ragazzi e – sia con quello che fanno o che non fanno, talvolta perfino con quello che dicono – segnano le vite di chi studia. A tutti sarà capitato quel professore rigido e severo che, nel momento più inatteso, rivela un punto d’umanità sorprendente. E non può mancare la prof che è un po’ come la tua mamma, che ti porta con sé, che senti parte della tua vita. Ogni adulto ha portato un pezzo prezioso, insostituibile.

È per tutti questi motivi, e per molti altri che appare difficile raccontare, che la maturità è quindi un addio all’infanzia, è il modo con cui salutiamo quello che siamo stati e che ci ha reso ciò che siamo. Per cinque anni ci si è sentiti parte di qualcosa, si è toccato con mano che la vita non è fatta per la solitudine, che insieme le cose sono diverse e che davvero si può stare gli uni al fianco degli altri. Fa impressione voltarsi indietro e, d’improvviso, vedere tutto il bene che si è ricevuto. Fa impressione e fa commuovere.

Sarebbe stupido, tuttavia, far finta che il tempo dell’adolescenza sia una grande favola in cui le cose sempre funzionano e sono magiche. Tedua, in uno dei suoi ultimi brani, racconta di persone che sembrano “demoni all’inferno appoggiati sul bancone”, ma che non sono altro che “deboli all’interno forgiati dal rancore”: dietro la sfrontatezza e l’apparente superficialità di tanti ragazzi c’è una grande rabbia che attraversa questa generazione, una rabbia che nasce dal sospetto di una promessa tradita. Pavese direbbe: “Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?”. È difficile descrivere la percezione che accompagna tanti giovani che avvertono un bene assente, un bene mancato, una vita che non offre possibilità o valore.

Si va a fare la maturità, dunque, non soltanto con i ricordi e i volti di cui si è grati, ma spesso con le ferite dell’autolesionismo, con i postumi della depressione, con le goccine per l’ansia, col cibo e il sesso che diventano beni di rifugio o di distruzione, con l’apparente pace che ti dà una canna o con la beata anestesia di cui ogni fine settimana è capace l’alcool.

Essere maturi, allora, non significa essere equilibrati o rientrare nella gamma dei valori che qualcun altro ha deciso per te, essere maturi è saper guardare dentro l’abisso che ciascuno di noi è per provare a perdonare e ad abbracciare tutto dell’ignoto che abita dentro la vita. Ma che cosa può donare questa maturità? Quale esame ci può fornire questo diploma? Da chi si può copiare per passare un tale compito?

Se uno guarda quello che ha studiato, e legge di Beatrice, della madre di Ungaretti, delle amicizie che legavano fra loro gli artisti, non può che accorgersi che l’ignoto della vita diventa amabile, diventa possibile, diventa guardabile, solo grazie ad una Presenza, a Qualcuno che ti fa capire che quello che c’è dentro di te non è ignoto, ma è Mistero. Il Mistero che ti porti dentro, direbbe la cultura urban, diventa il “bro” che non ti “snitcha” mai, diventa il fratello che non ti tradisce, che non fa la spia, che ti resta fedele per sempre. La rabbia, nella vita, finisce solo davanti all’amore. Come accadde all’Innominato, che divenne maturo quando divenne amico della sua storia, del suo cammino, del suo dolore.

La maturità non è una prova che si valuta in centesimi, non è la somma di scritti e orali, non è il punto di credito che non ti è stato dato: la maturità è quest’inizio di amicizia col Mistero che ciascuno di noi è, un’amicizia che ti fa desiderare non di giudicare sempre la vita degli altri, non di coltivare l’indignazione per un mondo cattivo e definitivamente ingiusto, ma che ti fa sognare di spenderti, di donarti, di darti, per qualcosa di grande e di bello, per qualcosa che possa finalmente fare bene al mondo. Non è facile essere maturi, non è facile guardarsi in questo modo.

E così, mentre ciascuno sale i gradini che lo porteranno a quel banco dove tutto finisce e tutto comincia, mentre si attendono le tracce delle prove da svolgere, mentre si guarda – forse per l’ultima volta – quel corridoio che ci ha visti poco più che bambini, non possono che venire alla mente le parole di una canzone di Shiva che in questi giorni va molto nelle radio e che davvero ognuno di noi può dedicare al Mistero della vita: “Io non lo so che cosa vuoi da me, ma so solo che ciò che voglio [in fondo] sei Te”. Buon esame, ragazzi.

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