Venticinque miliardi di dollari in Israele, 30 in Germania, oltre 4 in Polonia: Intel ha praticamente deciso l’allocazione del suo maxi-piano di investimenti nell'”Occidente europeo-mediterraneo”. Una sorta di “Piano Marshall” originato da una sola corporation americana, anche se non manca il propellente del “Chip Act” da 280 miliardi di dollari varato dall’Amministrazione Biden nel quadro del suo “New new deal” proiettato nel “dopoguerra”. Intel aveva annunciato in precedenza la costruzione di due giga-fabbriche in Ohio, con un budget di 20 miliardi di dollari comprensivo di partnership con grandi università per la formazione di migliaia di tecnici “stato dell’arte” nella produzione di microcprocessori.
Fino a qualche mese fa c’era una seria candidatura italiana – l’area di Verona, in prima battuta su Torino – per uno dei grandi sbarchi di Intel oltre Atlantico. Oggi a non aver perso tutte le speranze sembra essere rimasto il ministro per il Made in Italy Adolfo Urso. Non è detto che non vi siano secondi o terzi round per un grande investimento strategico statunitense in Italia: Germania e Polonia sono in fondo oggi le due prime attenzioni Usa in Europa. Per opposte ragioni: Varsavia è l’alleato più affidabile direttamente affacciato sul fronte russo/ucraino. Berlino – il maggior Paese dell’Ue – è invece il più recalcitrante di fronte alla nuova “Guerra Fredda”, soprattutto quella geo-economica con la Cina.
Il Governo Meloni conta oggi su un buon rapporto con gli Usa, ma sconta la mancata denuncia dell’adesione alla “Via della Seta”, firmata dal Governo Conte-1. E che il congelamento degli accordi del 2019 abbiano un impatto diretto e delicato sulla manifattura e sulla politica industriale italiana lo si è definitivamente compreso nei giorni scorsi con la decisione del Governo italiano di ricorrere ai cosiddetti “golden power” sulla governance di Pirelli.
Qui il gruppo cinese Sinochem (a controllo statale) è oggi il primo azionista (37%) e si accingeva a scalare verso l’alto la sua presa negli organi di governo e nelle strategie del gruppo tuttora guidato da Marco Tronchetti Provera, affiancato da altri soci italiani. Di fronte all’allarme lanciato da Pirelli, il Governo ha infine prescritto in via imperativa alcune limitazioni ai poteri di Sinochem proteggendo la guida italiana del gruppo e il patrimonio tecnologico da incursioni cinesi. L’operazione è però stata commentata dagli analisti internazionali come “minimale” nel contenuto e cauta nello stile: certamente preoccupata di non provocare un incidente internazionale come un plateale disimpegno da parte di Sinochem dal capitale Pirelli, con la conseguente necessità di interventi finanziari d’emergenza (non esclusi da parte di Cassa depositi e prestiti o altri investitori pubblici).
È stato così che il caso Pirelli – al di là del già rilevante versante geopolitico – ha rimesso in luce altri profili critici di politica industriale in Italia. Il primo: grandi gruppi superstiti come Pirelli (con più di un secolo di storia) continuano ad avere instabilità nei loro assetti di controllo, prima ancora che necessità di mezzi per lo sviluppo. Secondo: la lunga parabola di Pirelli si è mossa in parallelo a quella del gruppo industriale a lungo leader in Italia (la Fiat) e più in generale alle traiettorie di un settore auto in forte trasformazione.
Un terzo spunto di riflessione è la sintesi propositiva dei primi due: in base a quali criteri un Governo nazionale decide che la proprietà o la strategia/gestione di un’azienda è di “interesse nazionale” e giustifica limitazioni dirigistiche a un’economia di mercato e al diritto societario su di essa modellato? Quali motivazioni possono suggerire l’intervento della Cdp (o del futuro fondo sovrano Made in Italy) in un’azienda – anzitutto nella sua proprietà – oppure negarlo?
In Tim la Cdp è già entrata – più di vent’anni dopo la privatizzazione – per tutelare il destino “pubblico” della rete. Fondi specializzati della stessa Cassa sono presenti nel capitale di alcune società’ aeroportuali e industriali, anche quotate in Borsa. Ancora, la Cassa ha ristatalizzato le Autostrade, ricomprandole da Atlantia, dopo le forti polemiche seguite al crollo del ponte di Genova.
L'”algoritmo politico-economico” del nuovo intervento pubblico nell’industria appare tuttavia ancora lontano dall’essere anche solo impostato. Pirelli e Intel fanno notizia (peraltro con commenti cauti e non univoci). Centinaia di altre aziende no e magari beneficerebbero enormemente dall’arrivo in Italia di una Intel oppure di misure pubbliche (regolamentari o finanziarie) a supporto della competitività globale e dei loro prodotti e processi.
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