Dalla metà di giugno, i giornali sono pieni di notizie sulla maturità (tecnicamente “esame di Stato per il secondo ciclo di istruzione”): cronisti equamente distribuiti fra i licei prestigiosi delle grandi città e gli istituti tecnici delle cittadine di provincia, illazioni sull’autore che verrà sottoposto a commento (traccia scelta quest’anno da meno del 4% degli studenti, benché Quasimodo sia il top trend, visto che è stato proposto cinque volte su 23 esami, che dice molto sul modo in cui viene insegnata la letteratura italiana), interviste a esperti per fare le pulci a chi ha scelto le tracce o formulato le prove, polemiche o pseudo polemiche sull’impostazione ideologica… e questo nel silenzio quasi tombale in cui giacciono, per le restanti quarantotto settimane, i problemi della scuola.
Riflettendo su questo paradosso, sono stata colpita da un’idea di cui chiedo scusa in anticipo: la maturità è il festival di Sanremo della scuola. Gli aspetti spettacolari e comunicativi prevalgono sulla sostanza: non siamo ancora, almeno spero, al featuring Valditara-Fedez o alla proposta di far scegliere le tracce ad Amadeus, ma siamo sulla buona strada… In questo bailamme mediatico, che cosa resta delle iniziali finalità dell’esame?
In teoria, la prima finalità è, più o meno, selettiva: si tratta di capire quanti ragazzi/e hanno frequentato con profitto, cioè raggiungendo gli obiettivi indicati nei profili in uscita, un qualsiasi indirizzo di scuola secondaria superiore, a prescindere dalla indicazioni dei profili medesimi. Con percentuali di bocciature da prefisso telefonico, ci si chiede se non basterebbe utilizzare i dati sui non ammessi, che si aggirano intorno ad un più ragionevole 4%: in pratica, gli insegnanti che conoscono i ragazzi attestano che hanno/non hanno raggiunto gli obiettivi, senza mobilitare un esercito di commissari riottosi.
Dopodiché si pone il problema di come procedere: ripetere l’anno tout court? Frequentare dei corsi che consentono di sanare le lacune nelle materie insufficienti? La mia idea, che ho più volte esposto senza grande successo, è che l’attestazione di frequenza positiva possa essere anticipata alla fine del quarto anno, dedicando il quinto anno o al recupero o all’approfondimento delle materie che potrebbero essere testate in ingresso all’università o nell’istruzione di terzo livello in relazione all’indirizzo, o ad una professionalizzazione ulteriore per chi esce da un istituto tecnico o professionale. Non si taglierebbe un anno, ma si modificherebbe in modo a mio avviso più produttivo l’anno terminale.
Le seconda finalità, analoga a questa e probabilmente enfatizzata dal ministero del Merito, è quella di stabilire una graduatoria fra i diplomati, che può servire come credito per l’ammissione ad alcune facoltà a numero fissato, o per accedere ad un premio, che nato più che decoroso, mille euro, è sceso lo scorso anno a 73 euro, cifra risibile: del resto, i maturi con lode nel 2007 erano 3mila, e lo scorso anno oltre 16mila. Per gli ottimisti è una prova che non è vero che i giovani sono peggiorati! Per i pessimisti… lasciamo perdere: anche perché il confronto con i risultati dei test Invalsi è impietoso. Del resto, questo è il meccanismo dell’Abitur tedesco, totalmente interno, che costituisce la certificazione del percorso compiuto, in cui quasi tutti sono promossi, ma solo chi raggiunge votazioni molto elevate nella certificazione, basata sui risultati degli ultimi due anni, può scegliere liberamente l’università.
Terza finalità, presente nel vecchio nome forse non a caso modificato, accertare la “maturità” dei diciannovenni. A parte la difficoltà crescente nel definire un concetto labile e multiforme come maturità, è ragionevole supporre che possa essere accertata e misurata con due scritti e un orale di un’ora, e l’attribuzione in tre anni di un numero di crediti facilmente determinabile da chi abbia conseguito il Nobel in fisica o la medaglia Fields per la ricerca in matematica? Inoltre, la scuola non si occupa, o si occupa solo parzialmente, di una serie di componenti della crescita, come prova il recente dibattito sulle cosiddette competenze non cognitive, o peggio ancora quello sul voto di condotta di studenti che hanno fisicamente assalito i propri insegnanti, e quindi non è in grado di valutarne il possesso.
Da ultimo, sembrerebbe sopravvivere l’idea di rito di passaggio all’età adulta, ma da questo punto di vista l’esame ha perso ogni aspetto di difficoltà, e hanno guadagnato spazio momenti accessori, come il viaggio in Spagna o in Grecia, o la “notte prima degli esami” raccontata da film e commedie, che non hanno nessuna connotazione di difficoltà da superare. Non si punta ovviamente ad avere, come in Giappone nel 2022, 512 suicidi per ansia da prestazione fra gli studenti, ma l’elemento dell’ostacolo da superare è estremamente attenuato.
Sia dal punto di vista della valutazione che dal punto di vista del significato educativo, mi pare dunque che da molti anni la maturità si sia svuotata di significato: resta il valore burocratico per cui la legge impone (ma su che basi?) che la conclusione di un ciclo di studi sia sancita da un esame, il cui superamento consente di proseguire. Anziché esercitarsi in cambiamenti cosmetici (il punteggio in singoli voti, o in centesimi o in sessantesimi; la durata dell’orale; la tipologia dei crediti…) sarebbe preferibile impostare una seria revisione per costruire un meccanismo efficace e possibilmente duraturo, ad esempio valorizzando il curricolo dello studente e la sua intera esperienza, come accade sempre più spesso sul mercato del lavoro. Gli esempi in altri Paesi non mancano. Ma mi chiedo se questo è un obiettivo reale della scuola e dei decisori politici, e la risposta, temo, è negativa.
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