In Italia abbiamo un milione e 700mila giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non cercano di formarsi una professione. Sono i cosiddetti Neet, acronimo inglese che significa appunto Not in Education, Employment or Training. L’ultima segnalazione della faccenda viene dal Rapporto Istat 2023, classica fotografia statistica dello stato del Paese, presentata pochi giorni fa.
Un giovane su cinque è a spasso senza prendere iniziativa e senza sapere che fare. Non è una gran notizia, nel senso che si sapeva già che sotto questo aspetto siamo da tempo messi un gran male, facendo da tempo peggio – di 7 punti – della media europea, piazzandoci negli ultimi posti della classifica. Le percentuali più alte riguardano, manco a dirlo, le ragazze e il Sud, mentre la quota di Neet si abbassa (al 14%) per chi ha frequentato l’università.
Che non sia una novità imprevista caduta come un fulmine a ciel sereno, nulla toglie alla gravità del dato e del problema che esso segnala. Stupisce (ma fino a un certo punto) che i mezzi di informazione si siano limitati a dare notizia del Rapporto riservandovi uno spazio pari al minimo sindacale. Se si contano i chili di inchiostro e le migliaia di battute ogni giorno dedicate a tutti i possibili risvolti o retroscena di questo o quell’omicidio, o femminicidio, rispetto ai fugaci accenno a questi dati, si resta francamente un po’ perplessi. Sono infatti i temi decisivi per il futuro prossimo del Paese, se pur non titillano, ne siamo ben consci, le curiosità gossipare delle masse.
La gravità della situazione dei giovani tra scuola e lavoro è ulteriormente sottolineata da qualche altro dato: metà di loro subisce una “deprivazione” (o più di una) in ambiti considerati decisivi per il benessere personale. Che sono: Istruzione e lavoro, Salute, Inclusione sociale, Benessere soggettivo, Territorio. Fuori dalla terminologia tecnica, significa che metà dei giovani sperimentano un serio disagio perché gli manca qualcosa di necessario per poter dire di stare bene. E gli manca “obiettivamente”, non per sensazione soggettiva.
Già da questi semplici indicatori si nota che i problemi si determinano nelle sfere (più tra loro connesse di quanto non si voglia prendere atto) della scuola e del lavoro.
E allora conviene considerare unitariamente altri due dati. Il primo riguarda la disoccupazione giovanile. La quale, sempre un poco in diminuzione, è pur sempre troppo elevata e comunque di 7 punti superiore alla media europea.
Il secondo dato riguarda la cosiddetta dispersione scolastica: l’11% degli iscritti alla scuola superiore la abbandona prima del conseguimento del diploma. Senza contare poi gli universitari. Anche nella classifica dei numero di laureati siamo molto in basso a livello europeo.
Inoltre, hanno fatto notare giustamente diverso osservatori, è scattata la trappola povertà: almeno un terzo delle persone a rischio di povertà sono nati da genitori che a 14 anni vivevano in povertà. Un loop che trattiene giù come una palla di piombo, frantumando ogni retaggio di ascensore sociale per cui, negli anni del grande sviluppo, i figli degli operai con licenzia elementare o media studiavano da perito o ragioniere e trovavano lavoro a 19 anni con paghe superiori a quelle del babbo. Oggi il trend è alla rovescia: più probabile il peggioramento.
Ce ne sarebbe abbastanza. Ma forse non è inutile aggiungere un ultimo aspetto della “questione giovanile” sotto l’aspetto istruzione-lavoro, ed è quello che gli addetti agli studi chiamano mismatching (perché se non lo dicono in inglese forse si sentono meno addetti), cioè il disallineamento tra offerta e domanda di lavoro. I laureati in materie umanistiche sono il 9%, le richieste delle aziende equivalgono a 5,8%, inversamente gli ingegneri sono il 12%, le aziende potrebbero assorbirne un numero pari a quasi il doppio (23%). Inoltre i laureati, nonostante siano percentualmente meno della media Ue, sono più numerosi di quando il mondo produttivo ne richiede. E questo probabilmente segnala uno scarso investimento di tante nostra aziende specie medio-piccole sull’innovazione tecnologica.
Non mancano, a dir tutto, anche nel Pnrr, interventi che riguardano da un lato l’orientamento scolastico e il potenziamento della formazione, e dall’altro le politiche attive per il lavoro. Anche la legislazione, compresa quella promossa dall’attuale governo, prevede agevolazioni alle aziende per quanto riguarda l’assunzione di Neet o di giovani in generale.
Non è che si possa dire qualunquisticamente che fa tutto schifo. Tuttavia sembra ancora di là da venire l’elaborazione di una visione unitaria del problema giovanile nel nesso obbligatorio educazione-lavoro.
Piccoli e frammentari interventi spot appaiono inadeguati. Verosimilmente occorre immaginare una seria riforma che superi la storica dicotomia tra materie umanistiche e materie scientifiche e che impegni strutturalmente la scuola a interagire con il mondo produttivo reale. Per esempio con gli istituti tecnici superiori. Con una cura per gli Itis e le stesse scuole professionali riscattandole dalla deriva della dequalificazione o della sottoconsiderazione.
Non è solo una questione organizzativa, ma una questione educativa. Oltre agli assetti strutturali che possono aiutare, sarà sempre necessaria la trasmissione di una curiosità per la realtà, di un gusto della scoperta e della conoscenza, dell’attrattiva di un lavoro e di un prodotto ben fatto. Non bastano gli esperti standardizzati. Servono uomini vivi, che siano insegnanti, manager o tecnici o operai da cui traspaia il senso del lavoro e la sua bellezza.
Un giacimento di ricchezza che non ci manca. Bisogna sfruttarla. Magari, se del caso, disseppellirlo. Tra l’altro il Meeting di Rimini di quest’anno, e in particolare le iniziative promosse dalla Fondazione per la Sussidiarietà all’interno del suo programma, offriranno un apporto molto importante in questa direzione.
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