Per un Paese come il nostro che viene da trent’anni di scarso sviluppo, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) è un’occasione imperdibile. È di questi giorni la notizia del via libera della Commissione europea alla rimodulazione richiesta dall’Italia degli obiettivi della quarta rata, che vale 16 miliardi e che rischia di slittare all’anno prossimo. Ma vi sono altre gravi criticità non sufficientemente evidenziate dalla grande stampa. Come sottolinea il report appena pubblicato a cura del Forum Terzo Settore (“Il Pnrr, le politiche sociali e il Terzo Settore”), “una verifica attenta dell’attuale stato di attuazione del piano mostra (…) che gli enti del Terzo settore, nonostante siano evocati nel testo del piano, non sono effettivamente coinvolti nella sua concreta attuazione”.
Come dice ancora il report, “l’elaborazione del Pnrr è stata calata dall’alto (…) in assenza di un’azione congiunta, in termini di competenze, visione ed esperienza, tra Governo, Pubblica amministrazione, parti sociali, Terzo settore e tutte le energie del Paese”.
Non c’è traccia nemmeno del modello organizzativo, recentemente introdotto, che riguarda i beni pubblici, e prevede l’amministrazione condivisa tra ente pubblico ed enti del Terzo settore.
In altri termini, mentre è seguita una logica di sussidiarietà verticale (modello redistributivo dal centro alla periferia) è praticamente negata la sussidiarietà orizzontale, nonostante sia previsto lo stanziamento di oltre 40 miliardi che potenzialmente toccano interessi e ruolo del TS. La miopia di un tale approccio sta nel fatto che al Pnrr viene sottratto uno strumento indispensabile per centrare i suoi obiettivi di sviluppo.
Il Terzo settore, infatti, come sappiamo, è il soggetto pubblico (realizza per lo più servizi di pubblica utilità alla persona), espressione della partecipazione e dell’appartenenza della gente alla sua comunità. È costituito da 400.000 imprese, 6 milioni di volontari, 1,6 milioni di dipendenti, contribuendo per quasi cento miliardi di euro al Pil nazionale. La sua presenza sul territorio e il suo contatto diretto con i bisogni, lo porta a conoscere le esigenze locali e le priorità per ogni quartiere, paese, territorio, provincia, regione.
Il punto centrale del problema riguarda il fatto che senza mettere al centro lo sviluppo sociale del Paese, difficilmente potrà esserci sviluppo anche economico. Certamente questo riguarda il ruolo dello Stato e del mercato, ma tale compito non può prescindere da quello dei corpi intermedi e del Terzo settore.
Pensiamo alla crisi della sanità pubblica (in tutta Italia le attese per visite ed esami nella sanità pubblica hanno raggiunto livelli insostenibili); o ai Neet, una classe sociale di giovani fra i 16 e i 34 anni, stimata dall’Istat lo scorso maggio in 5,7 milioni, che non studia, non lavora e non si forma; o pensiamo ancora al livello di disuguaglianza sociale evidenziato dal fatto che lo 0,134% degli italiani titolari della ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri (dati Oxfam).
Come dice Raghuram Rajan nel suo fondamentale libro “Il terzo pilastro”, “nessuna società democratica civilizzata dovrebbe consentire che i suoi membri non siano in grado di vivere pienamente per il solo fatto di non potersi permettere tale assistenza [sanitaria]”.
La globalizzazione ha messo in crisi un sano equilibrio tra Stato, mercato e comunità. La comunità, scriva ancora Rajan, “tiene l’individuo ancorato a una serie di reti umane reali e gli conferisce un senso di identità; […]. Permettendoci di partecipare a strutture di gestione locale […] oltre che alle elezioni locali per nominare la giunta comunale o distrettuale, la comunità ci conferisce un senso di autodeterminazione, di controllo diretto sulla nostra vita, rendendo al tempo stesso i servizi pubblici locali più funzionali per noi”. “Il localismo – inteso come accentramento di più poteri, spese e attività nella comunità – sarà un modo in cui potremo far fronte alle disorientanti tendenze centrifughe dei mercati globali e delle nuove tecnologie”.
Inoltre, un piano di sviluppo non può prescindere dalla domanda che Martha Nussbaum, formulava in questo modo: «Che cosa può fare ed essere una persona?». Secondo il paradigma delle “capabilities” del premio Nobel indiano Amartya Sen, al centro dell’attenzione dello sviluppo non devono esservi solo le risorse, quanto piuttosto il loro ruolo nel sostenere le capacità di agire degli esseri umani.
In questo sta il ruolo insostituibile dei corpi intermedi e della sussidiarietà. Nel gestire il Pnrr occorre tenerne conto.
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