Giustizia, la trappola dei “sacerdoti”

Il Paese continua a soffrire di una grave patologia nel rapporto fra politica e magistratura. C'è una visione culturale giacobina da cambiare

Nel nostro Paese continua a manifestarsi una grave patologia nel rapporto fra politica e magistratura. Lo si vede nel permanente stato di conflittualità, a tratti più latente a tratti clamorosamente palese, con levate di scudi dei capi corrente e sindacali delle toghe contro qualsiasi tentativo di riforma. È cronaca anche di questi giorni. La patologia consiste principalmente in uno sbilanciamento dei poteri costituzionali dello Stato, dove la classica separazione dei poteri “è ora tradita dall’espansione del potere giudiziario” (Sabino Cassese, Il governo dei giudici), ai danni s’intende di quello legislativo, in un’Italia “amministrata della giustizia penale” (Luciano Violante in Il Dubbio, 18 settembre 2021, citato dallo stesso Cassese). Un ulteriore sbilanciamento è quello interno alla stessa funzione giudiziaria, con la prominenza degli organi dell’accusa sugli organi giudicanti, blindata con l’unicità delle carriere.

Sta di fatto che ad oggi si ha l’impressione che non si riesca a sbloccare la situazione, e che ogni strada che si cerca di imboccare si riveli presto un vicolo cieco. Occorre prendere atto che sia la patologia sia il suo cronicizzarsi sono dovuti a due profonde fratture: una frattura politica, sviluppatasi trent’anni fa con l’operazione Mani pulite, e una precedente frattura culturale che viene dal ’68.

La frattura politica ha il suo epicentro nella sostanziale abolizione dell’immunità parlamentare, ovvero dell’autorizzazione a procedere, avvenuta con la riforma costituzionale dell’art. 68, approvata nell’ottobre del 1993 quasi all’unanimità. Approvata, s’intende,  non per convinzione dei parlamentari, ma per paura. Per una sorta di “si salvi chi può” sperato (invano) al prezzo del cedimento alle esplicite richieste avanzate pubblicamente dal capo del pool di Mani pulite, Saverio Borrelli, fatte proprie e rilanciate dall’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano (Pds) e dall’onda (e dall’orda) del populismo manettaro che proprio l’azione del pool suscitava e di fatto orientava e i giornali assecondavano e amplificavano; un po’ per vendere più copie, un po’ perché sotto scacco della magistratura che aveva mandato avvisi di garanzia ai loro padroni.

Molto utile la lettura di Goffredo Buccini, Il tempo della mani pulite. Buccini in quel periodo era giovane cronista della giudiziaria del Corriere. Sta di fatto che cadde allora quello scudo protettivo che i padri costituenti avevano voluto a difesa della sovranità popolare espressa nelle forme della democrazia rappresentativa. Scudo di cui peraltro, va detto, spesso i deputati avevano abusato.

La frattura culturale ebbe come protagoniste due concezioni inizialmente opposte della giustizia che hanno finito per convergere. La visione giuridica prevalente sino ad allora nelle università italiane era orientata a un ideale di ordine, quindi alla tutela dell’ordine sociale e dell’ordine costituito. Politicamente, e detto un po’ sbrigativamente, questa visione era di destra. Del resto in quegli anni se nelle università “rosse”volevi trovare un qualche fascistello era più facile che stesse annidato a giurisprudenza che in altre facoltà.

Dal versante comunista extraparlamentare si fece spazio in quegli anni una visione rivoluzionaria della giustizia, propagandata soprattutto dall’organizzazione “Magistratura democratica”. Per questa visione la giustizia è quella del proletariato, il suo ideale non è difendere l’ordine dello Stato borghese e della stessa democrazia borghese, destinati ad essere superati, ma promuovere e affermare un ordine nuovo nelle futura nuova società.

In questa visione, l’ordine giudiziario ha quindi una funzione “giacobina” di moralizzazione della società e della politica, una missione trasformatrice moralmente superiore e nei fatti tendenzialmente prevalente sulle forze interpreti del potere legislativo. All’interno di una realtà che si autogoverna, come quella giudiziaria, la linea di destra di superiorità dell’ordine e quella di sinistra di superiorità del nuovo ordine si rivelarono al tempo di Mani pulite tutt’altro che incompatibili, in una logica condivisa di politicizzazione della funzione della magistratura. Come altro si spiega che, per stare al pool di Milano, non si vedeva gran differenza tra un “destro” come Piercamillo Davigo e un “sinistro” come Gherardo Colombo?

Credo che il tratto comune di fondo delle due visioni fosse un’antropologia negativa, una visione per cui l’uomo, la società e figurarsi i loro capoccia politici sono naturaliter cattivi e portati al disordine e quindi vanno corretti con le regole, le indagini a tappeto e le manette a gogò decise ed attuate in autonomia dalla classe superiore dei sacerdoti della giustizia. È auspicabile che questi presupposti – che non appartengono certo alla generalità dei magistrati, ma ai capi corrente e ai capi sindacali che governano carriere e trasferimenti sì – vadano considerati, valutati e possibilmente superati. Perché è lungo questa china che ci è andato di mezzo l’equilibrio dei poteri dello Stato, essenziale per la democrazia, e la stessa possibilità di maggior benessere materiale e morale del popolo.

Occorrerebbe che politica e magistratura, ciascuna nell’ambito  della propria indipendenza e delle proprie competenze, trovassero la pazienza di un dialogo politico, ma anche di un dialogo culturale che piano piano riaprisse degli spiragli per uscire dalla buca in cui siamo. Non per regolare i conti, non per contrattare la difesa ad oltranza di rispettivi privilegi, ma per accortamente riformarsi, correggersi al proprio interno senza insabbiare le magagne, e soprattutto relazionarsi al lato sano della vita del popolo: non quello che chiede vendette e si esalta per i castigamatti (peraltro ormai minoritario, dopo le grandi delusioni da Mani pulite a M5s) ma a quello che lavora, educa, produce, costruisce. Che sa essere solidale con gli altri, o di solidarietà ha bisogno perché azzannato dalla povertà.

Ecco: parlarsi cercando di avere negli occhi e nel cuore la realtà che interpella e non l’ideologia o il potere che si vorrebbe imporre, è – forse – l’unica strada. Dovrebbe valere per il Parlamento e il Csm come anche per un’assemblea di condominio. Cioè a dire dovrebbe valere per ognuno di noi nel nostro normale relazionarci con gli altri.

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