I dati “snobbati” sulla scuola

La base su cui costruire una politica educativa efficace è la conoscenza approfondita della situazione, grazie alla raccolta e all'interpretazione dei dati

In questi giorni, la stampa dedica molto spazio ai risultati dei test Invalsi, sottolineando i – pochi – miglioramenti, ed evidenziando, accanto alle differenze storiche fra le diverse zone del Paese (non solo Nord/Sud, ma anche periferie urbane e centri) un effetto “long Covid” della cui entità non ci sono prove certe. Ma lascio il commento dei dati a valutatori più competenti di me, cogliendo invece l’occasione per un discorso più generale.

Quando insegnavo sociologia dell’educazione, un anno pensai che sarebbe stato interessante (per me, se non per i miei studenti) dedicare qualche lezione al ruolo della ricerca educativa nella società italiana. Posso anticipare le conclusioni (in italiano, moderno, spoilerare): il ruolo è, o potrebbe essere, duplice: il procedere delle conoscenze scientifiche e l’individuazione dei problemi e delle possibili soluzioni per il miglioramento del sistema educativo.

Per quel che riguarda le conoscenze scientifiche, il principale limite della ricerca in Italia è la sua estrema compartimentalizzazione: benché sia evidente che i processi educativi sono troppo complessi per essere affrontati da una sola scienza, ciascuno utilizza solo la sua ottica disciplinare (pedagogia, didattica, sociologia, psicologia, economia…), ma manca la figura che in inglese viene definita educationalist, cioè un esperto in grado di mettere a sistema teorie e pratica per ricavarne una visione organica. La contaminazione fra scienze diverse, che ha dato risultati eccellenti nella maggior parte delle scienze, con la valorizzazione dei processi di confine e i fenomeni di serendipity, in educazione è considerata una specie di peccato mortale. Per quel che riguarda la possibilità di trovare strade di miglioramento, attraverso un contatto costante con i decisori politici (quello che Machiavelli chiamerebbe “consigliere del principe”) il primo problema è che il principe medesimo pare poco motivato ad ascoltare i consigli di chicchessia: nella politica agita, e non parlata, il posto dell’educazione nella gerarchia delle priorità non è precisamente nella top ten.

In ogni caso, quel che emergeva dalla mia riflessione è che la base su cui costruire una valida competenza, disciplinare e non, e una politica educativa efficace è la conoscenza approfondita della situazione, grazie alla raccolta e all’interpretazione dei dati. I dati sul sistema educativo sono di tre tipi:

Dati demografici, che fotografano con largo anticipo gli andamenti delle iscrizioni, strettamente legati alla natalità almeno per la fascia 0-14, se non per piccole variazioni legate all’immigrazione. Ora, si sa da almeno dieci anni che la scuola subirà un brusco ridimensionamento: agli Stati generali della natalità è emerso che nei prossimi dieci anni le scuole secondarie di primo grado perderanno quasi trecentomila studenti, la primaria 400 mila e la scuola dell’infanzia oltre 150 mila. La secondaria di secondo grado dovrebbe perdere circa cinquecentomila iscritti, anche se ci potrebbe essere un margine di recupero perché i proseguimenti dopo la terza non sono al cento per cento. I dati sono disponibili per area geografica. Ne conseguirebbe che nei prossimi dieci anni, a fronte di un calo nell’entità di un milione e mezzo di studenti, le cattedre dovrebbero diminuire di 10-12 mila ogni anno, anche se l’esperienza passata mostra che i sindacati tendono a considerare il numero dei docenti una variabile indipendente, eventualmente inventandosi modifiche come l’enorme aumento dei ragazzi bisognosi di supporto, con conseguente analogo aumento degli insegnanti di sostegno, meccanismo infernale sulla cui efficacia nessuno ha svolto una seria indagine. Da questo punto di vista, dato l’arco di tempo disponibile, affermazioni come l’abolizione delle classi pollaio, che si estingueranno per mancanza di pulcini, non hanno alcun senso se non propagandistico, e non hanno alcuna scusante le misure introdotte di corsa all’ultimo momento come i concorsi “facilitati”.

Dati sull’efficacia, forniti dalle rilevazioni nazionali (gli “Invalsi”) o dalle indagini internazionali su larga scala. Queste indagini possono essere contestate, ma le serie storiche ne mostrano la validità, e forniscono preziose informazioni sulle criticità del sistema, anche attraverso gli approfondimenti tematici che vengono fatti dai ricercatori: la carenza di esperti di valutazione non è del tutto colmata, ma ci si avvia verso una situazione positiva, grazie anche al coinvolgimento delle università che hanno attivato qualche dottorato. Il problema è che questi dati non vengono utilizzati, se non per pubblicizzare occasionalmente i risultati più vistosi, nel bene e nel male, mentre l’obiettivo di queste indagini era precisamente di indicare le criticità su cui intervenire. Altri Paesi lo hanno fatto, basti guardare la spettacolare avanzata dei Paesi del sud-est asiatico, o anche la Germania: in Italia ricordo un esempio virtuoso in Puglia, dove si avviò un programma di riqualificazione dei docenti di matematica che portò a un recupero consistente di efficacia. Ma si trattò dell’intervento di un dirigente illuminato, che non intaccò il sistema, e anzi fu da molti criticato. Il fatto che da sempre questi dati indicano una disuguaglianza fra le diverse zone del Paese, segnalando una reale mancanza di equità (oltre che uno spreco di talenti) non ha generato cambiamenti reali

Dati di ricerca, sugli insegnanti, sulla soddisfazione degli utenti, sulle caratteristiche degli abbandonanti, tanto per fare qualche esempio. La ricerca accademica sull’educazione è sempre stata sottostimata e sotto finanziata, con un accenno di snobismo per cui una ricerca sui dirigenti scolastici non “vale” come una ricerca sui dirigenti delle imprese, anche se le dimensioni dell’impresa scuola, la complessità e l’importanza dei suoi compiti, ma anche gli aspetti economici e di mercato del lavoro, ne fanno una realtà sotto molti aspetti più significativa di molte delle imprese vere e proprie. Mi sembra di cogliere negli ultimi tempi una crescita di interesse non tanto da parte dell’attore pubblico, impegnato con i cavilli concorsuali, quanto di attori sociali come le Fondazioni e le associazioni di categoria, preoccupate per il livello di qualificazione di chi esce dalla scuola o anche dall’università.

Senza una collaborazione virtuosa fra i ricercatori e i decisori politici, un miglioramento reale del sistema resta utopico, e si rinnova l’incapacità di funzionare da volano nello sviluppo sociale e nella crescita individuale. Forse, oltre a raccogliere e produrre dati, dovremmo cercare di sensibilizzare al loro utilizzo effettivo: per parafrasare Dante, potrei chiudere con un “i dati son, ma chi pon mano ad essi?”.

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