Che bello tornare a quella strana estate di Nazareth

Fa caldo o non fa caldo? È un’esagerazione di chi ama le crisi e le emergenze o è un tema su cui fermarsi e riflettere? Chi può dirlo? In quest’ultima domanda si riassume tutta la confusione e la fatica che larga parte dell’opinione pubblica si porta appresso da qualche anno a questa parte, sia che si parli di pandemia o di vaccini, di guerra o di clima. Quello che sembra mancare è un metodo che possa condurre le persone da qualche parte, senza dipendere da esperti o da voci cui consegnare un’acritica fiducia. Eppure, questo metodo ci sarebbe e farebbe parte del bagaglio con cui la natura getta nel rapporto con la realtà: è l’esperienza di ciascuno. Tutti possiamo verificare la temperatura che si percepisce e paragonare questa percezione con quella dello scorso anno o con quella di qualche estate fa. A nessuno è impedito giudicare. Il punto è che questo giudizio chiede silenzio, chiede di far tacere i social, i programmi della televisione, i video.

La realtà ha bisogno di spazio e di tempo per emergere in tutta la sua verità: non può essere ricoperta di parole, di formule, di slogan, di cristallizzate certezze del passato. C’è bisogno che l’Io sappia fermarsi ad attendere il Tu. Gli antichi la chiamavano solitudine. Non è l’assenza di qualcuno, ma la capacità di entrare nel proprio suolo, in quel deserto del cuore dove l’uomo ha paura di penetrare perché non è abitato da nessuna compagnia, da nessuno schema, da nessun fracasso che ottunde le domande ultime. La solitudine è attesa. E l’attesa è disciplina. Perché chi attende accetta di stare dentro il rapporto con quello che apparentemente non c’è, accetta l’esperienza del dolore. Non esiste giudizio vero, a meno che non si voglia un giudizio intellettuale, morale o estetico che al passare delle circostanze inesorabilmente muta, senza attesa. E l’attesa cresce, si dilata, diventa vera, nella solitudine, nel rapporto nudo con sé stessi e con il proprio cuore.

L’opinione pubblica non riesce più a giudicare, ed è ostaggio di chicchessia, perché non fa più l’esperienza di un’assenza che diventa domanda, che diventa incessante grido al cielo affinché Dio si ricordi la prima promessa che ha fatto, l’unica che davvero interessa l’essere umano: non è bene che l’uomo sia solo. Ma, verrebbe da dire “per fortuna”, ci sono dei frangenti della vita che costringono al rapporto con quell’assenza: la salute di una persona cara, la fine di una storia, la paura del futuro, una malattia mentale, la morte. Le circostanze sono davvero amiche dell’uomo perché non permettono all’uomo di fuggire da quel luogo apparentemente deserto che è il proprio cuore. Benedetto telefono che non squilla! Benedetta assenza di tutto ciò che è possibile desiderare! Benedetta sala d’aspetto o sala di casa dove ogni spazio – benché piccolo – sembra infinitamente grande per poter essere riempito da ciò che uno brama. In quell’apparente vuoto, in quell’apparente morte, è possibile fare finalmente quello che normalmente si evita: si può stare, si può esserci.

Con tutta la gola che uno ha, l’accidia che sperimenta, l’invidia che prova, la lussuria che lo insegue: uno può finalmente stare. E, stando, può sentire crescere dentro di sé l’imponenza della domanda, la forza di un bene necessario più dell’aria. “Mandaci, o padre Zeus, il miracolo di un cambiamento” sospirava Simonide quasi tremila anni fa. “Se io toccherò la sua veste sarò guarita” pensava commossa l’emorroissa del Vangelo. Chi non sperimenta la radicale solitudine dell’umano vive in superficie, sempre a contendere ragione all’avversario di turno, mai domo di quel che riesce a possedere, convinto che stia fuori la forza della vita. Mentre invece è nell’abisso dell’anima che la stirpe degli uomini ha saputo trovare le proprie energie migliori, il proprio elan vital, il coraggio di iniziare a pregare. È questa consapevolezza radicale dell’esistenza che genera ogni giudizio: o tutto è nulla – ed è destinato al nulla – oppure tutto è bisogno, tutto è luce che sfida il buio, tutto è inizio.

E allora uno diventa un po’ più umile, un po’ più serio, un po’ meno gradasso con il marito, la moglie, gli amici, i figli. Uno diventa un po’ più semplice, un po’ meno attaccato a quello che vuole, a quello che pensa, a quello che sa. Perché, se tutto è inizio, se questa solitudine non è una condanna ma il luogo in cui riparte la speranza anche nell’ora peggiore, all’ora l’Io non sa nulla: io non so nulla. Tutto è mistero. Fa impressione tutto questo: uno crede di parlare del caldo, del freddo, del potere, della guerra. E invece sta parlando di sé, di come vuole stare di fronte alla vita, di quello che spera, di quello che sta costruendo per sé stesso e per gli altri.

Di quello che vuole lasciare alla vita. Benedetta solitudine che torni a bussare spesso alle porte dell’esistenza! Benedetto dolore che perfori la crosta dura di ogni uomo! Benedetto silenzio che riveli l’essenza del cuore! Come sarebbe bello tornare a quella strana estate di Nazareth in cui una ragazzina scrutava il Cielo pochi mesi dopo la visita dell’Angelo. Come sarebbe bello rivederla accanto a suo marito che l’aveva comunque presa con sé. Come sarebbe bello rivedere in loro la promessa che è stata fatta a noi. E scoprire che anche per loro il caldo, il freddo, il vento o la tempesta avevano un unico giudizio. La vita che, dentro tutta la solitudine del mondo, si portavano in grembo. La vita che si portavano nel cuore.

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