La vacanza di pochi giorni sulle Dolomiti comincia che il primo giorno piove. Ti chiedi cosa escogitare per vincere il tedio. Chi l’avrebbe detto che ci avresti preso gusto per quella mattinata di ingenui ma simpatici giochi di squadra al chiuso? Per di più partecipati da grandi e piccini, i grandi intesi non solo come papà e mamme ma anche come nonni, che dei nipoti ne avrebbero a buon diritto fin sopra i capelli. È accaduto. C’ero anch’io. In un mondo dove anche l’età divide le persone, ecco un assaggio convincente di un’unità tanto semplice e concreta quanto insolita e desiderabile.

Va detto che trattasi di vacanza comunitaria. Dove l’altro non è una rogna ma un bene. E dove non ci si congeda dalla vita, e magari neanche dai nipoti.

Sul tardi, c’è il prete che dice messa. È dignitosamente corretto e sobrio nell’osservanza liturgica, gradevolmente breve nelle omelie, peraltro dotate di un notevole grip rispetto all’esperienza  reale, sia quella usuale di sempre, sia quella vissuta in quegli stessi giorni. Il coro è ben preparato a attento, orienta e sostiene la partecipazione di tutti.

Inutile dire che trattasi di vacanza cattolica (non clericale).

Il sole quando arriva arriva, e allora si va. Lunga colonna che sale, come alpini, o come migranti, o come pellegrini, seguendo ognuno il passo dell’altro così che va in scena uno spettacolo di popolo in cammino. Il panorama è mozzafiato, e c’è un tempo di ammirazione della meraviglia creata e offertaci. C’è un’educazione dello sguardo, esattamente all’opposto della bulimia da foto senza contemplazione.

Trattasi di vacanza vocata alla Bellezza.

In quella grandiosità pacificante e silenziosa non dominano però oblio e smemoratezza. Non ci si chiude a riccio per esorcizzare il fastidio dei dolori del mondo. Ovviamente, la guerra in Ucraina. Non per farci su un dibattito fra improvvisati geo-politologi da bar, ma per condividere il dolore e rintracciare ragioni di speranza attraverso la testimonianza di chi a quella condivisione e a quella speranza dedica la vita. Elena Mazzola, da ricercatrice e docente di letteratura russa a Mosca ad anima e presidente della Ong Emmaus che a Kharkiv accoglie orfani ucraini. Elena non ha mai separato da loro il proprio destino, neanche quando da italiana “protetta” avrebbe potuto farlo agevolmente. Ha voluto sempre aderire al richiamo della realtà e della gente a lei affidata, convinta come Francesco che uno non si salva da solo, nel senso che “badare solo a salvarsi la pelle, che salvezza è”?

Trattasi di vacanza che vuole abbracciare il mondo.

E che vuole incontrare. Perché il gusto della vita si nutre di incontri che aprono mente e cuore. Ecco per esempio un giovane prof di Storia, Camillo Bartolini, che si è così affezionato alla figura di Ponzio Pilato e alla sua enigmaticità da cimentarsi in un romanzo. Nel dialogo con lui emerge che non la semplice curiosità storica e filologica sono stati il suo movente, ma il desiderio di immedesimarsi con il cuore di quella figura, di usare anche l’immaginazione per indagare su se stesso, mettersi alla prova, scandagliare il proprio atteggiamento verso Cristo, verso il destino e il senso della vita.

Ma che bella sorpresa quando testimonianze, più semplici e modeste ma dalla radice e dal cuore del tutto simili a quelle di Elena e Camillo, emergono nientemeno che da noi  vacanzieri.  Si parla di lavoro, cioè si parla di vita, di scelte, di famiglia, di malattie, di priorità, di sacrifici e di scoperte e di guadagni in umanità. Esempio, Giulia. Laurea in farmacia scelta per ripiego, ma prendendo le cose sul serio ci si è appassionata. Fino a diventare responsabile qualità di una grande azienda farmaceutica. I suoi criteri guida: aderire alle circostanze e desiderare il bene dei colleghi. Altro esempio, Chiara. Con leggerezza, agilità e gaia ironia documenta di aver sempre aderito alle mutevoli circostanze. Da giovane volontaria di segreteria a casalinga una volta arrivati i figli, capace di imparare l’amore ai bambini testimoniato dal prete e dalle assistenti dell’oratorio estivo; poi insegnante quando i figli sono cresciuti e  l’amore appreso lo  riversa sugli alunni. E poi sui nipoti, dieci, quando è d’uopo lasciare l’insegnamento per fare la nonna. E poi Cristina e Filippo, con la figlia adolescente malata di tumore e salva per miracolo. E poi Cecilia e Andrea, giovane coppia trasferitasi per il lavoro di lui in Australia, “dove tutto sembra perfetto e se Cristo fosse solo un’etichetta lo abbandoneresti presto. Ma prendere sul serio il desiderio del cuore e il confronto con gli amici nella fede sventa quella minaccia”. Così dopo la settimana di lavoro, il weekend è dedicato ad accogliere bimbi che sono in affido ad altre famiglie, per far loro tirare il fiato…

Quando il quotidiano ha dell’eroico, il normale quotidiano della normale gente, tocca ammettere che c’è di mezzo qualcos’altro, che una Grande Presenza c’è e non sta in ozio. Trattasi di vacanza di fede.

Di fede e di polenta. Quella preparata sopra i duemila metri da Gustavo con una squadretta di ragazzini entusiasti – quasi incredibile – di sobbarcarsi la fatica del trasporto in quota di farina formaggi salsicce e pentoloni, e la pazienza di servire tutti gli altri vacanzieri.

Trattasi in definitiva, tralasciando molte altre cose belle, di una goduria di vacanza.

Lo so, non è l’unica vacanza. Molte altre del genere si svolgono ogni anno, quelle a me note sono di ambiente ciellino, ma non si può escludere che ne esistano altre. In ogni caso sarebbe bello che facessero più notizia, in modo che l’idea sfiorasse quanta più gente possibile. Purtroppo non è roba di cui i media sono soliti occuparsi. Di questi tempi si legge piuttosto che sono tutti contenti (tutti chi?) del fatto che i vacanzieri dell’estate 2023 risultano essere  più numerosi di quelli pre-Covid del 2019. Per il turismo sono soddisfazioni: il giro sarebbe di 45 miliardi. Ma per la gente? Quanti la vacanza se la godranno davvero? Come una cosa bella e arricchente? La domanda è lecita anche perché, a quanto dicono gli esperti, un fantasma si aggira per l’Europa: lo stress da vacanza. Il quale si manifesta in tre fasi consecutive:  prima, durante e dopo. Prima è stress da preparazione,  ansia e timore che qualcosa possa andare storto. Durante è stress da ostentazione: adesso è tutto social e coazione al selfie per cercare di attestare che quanto a mete da sogno, aperitivi trendy e divertimenti vari non sei da meno degli altri, anche se alloggi alla pensione Graziella di  Gatteo Mare con un crodino in mano e più in là la moglie scazzata. Dopo, infine,  è stress da rientro: rientro al lavoro, e rientro nella realtà della vita “obbligata”.

Così la raccontano i siti e gli esperti, chissà poi se è tutto così vero. Certo c’è una cosa che accomuna quasi tutti: la vacanza è concepita come un congedo illimitato provvisorio non solo dall’obbligo, ma dalla vita reale stessa (e quindi dal suo significato e in fondo da se stessi) nell’illusione che solo così si possa ricavare lo spazio del ristoro e dell’umana soddisfazione. Cosa che succede regolarmente se si concepisce la vita come una condanna e l’io come una Duracell che ogni tanto deve ricaricarsi per reggere la pena.

Proprio vero: un Imprevisto è la sola speranza (Montale). Magari anche l’Imprevisto di una “strana vacanza” sorprendentemente vissuta senza congedarsi dalla vita e dal desiderio del cuore, Anzi riscoprendoli con più gusto, convinzione, letizia ed energia.

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