Sanità: no alle classifiche, sì alle valutazioni

Non sono le classifiche quelle che servono: sono invece fondamentali le valutazioni, cioè il processo verso il miglioramento continuo della qualità del servizio erogato

Che lo vogliamo o che non lo vogliamo nel mese di giugno si passa sempre dalla primavera all’estate, se non sempre con il tempo meteorologico, di sicuro con il tempo dettato dal calendario. E nel mese di giugno, puntuale come per le scadenze del calendario, oltre a tante cose che sarebbe lungo nominare, è tempo di classifiche: terminano diversi campionati sportivi (calcio, basket, …), finiscono le scuole con i relativi risultati (anche questi sono, in sostanza delle classifiche), e anche la sanità si mette a produrre classifiche, vere e proprie (con tanto di punteggi dei buoni e dei cattivi) o assimilabili (perché senza punteggi formali ma con l’indicazione esplicita di chi deve essere messo, concettualmente perché fisicamente le lavagne adesso sono appese attaccati ai muri, dietro la lavagna).

Una classifica esplicita l’ha fatta il Centro per la Ricerca Economica Applicata in Sanità (Crea Sanità: Le performance regionali, XI edizione, 2023) che, dopo avere individuato come dimensioni della performance l’equità, gli esiti, l’appropriatezza, l’innovazione, l’economia e finanza, e il sociale, e averne selezionato gli indicatori che le rappresentano, fatto 100% il punteggio massimo raggiungibile ha stilato una classifica che va dal 59% (il risultato migliore: il Veneto) a un minimo del 30% (il risultato peggiore: la Calabria), e propone la seguente conclusione: “Dalle valutazioni, quindi, si evince come, a parere del Panel, le Performance regionali risultino ancora significativamente distanti da una Performance ottimale“.

Tre Regioni (Veneto, P.A. di Trento e P.A. di Bolzano) superano la soglia del 50% (rispettivamente 59%, 55% e 52%); cinque Regioni hanno un livello dell’indice di Performance compreso tra il 47% e il 49% (Toscana, Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia e Marche); Liguria, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Umbria, Molise, Valle d’Aosta e Abruzzo, hanno livelli compresi nel range 37-43%; infine, 6 Regioni (Sicilia, Puglia, Sardegna, Campania, Basilicata e Calabria) hanno livelli inferiori al 32%.

Un’altra classifica esplicita è quella prodotta per la verifica della erogazione dei Lea (ministero della Salute) che con i dati riferiti al 2021 (ultima valutazione disponibile) vede nelle posizioni alte l’Emilia Romagna (punteggio 281,19), la Toscana (274,46), la P.A. di Trento (268,40) e la Lombardia (265,26), e nelle posizioni basse la Valle d’Aosta (147,21), la Calabria (159,99), la Sardegna (169,68) e la Sicilia (183,01).

Un’altra ancora è la classifica prodotta da Istat sulla speranza di vita alla nascita, che vede in testa sia tra gli uomini che tra le donne il Trentino Alto Adige (uomini: 81,5 anni; donne: 86) e in coda la Campania (uomini: 78,8 anni; donne: 83,1). E di queste classifiche sulla sanità se ne possono elencare molte altre, come documentato più volte anche su questo giornale.

Che valore hanno queste classifiche? A cosa servono? A chi interessano? Chi vince? Chi perde? Chissà se anche qui interviene l’equivalente della giustizia sportiva a togliere (o aggiungere) punti e a modificare la classifica?

Innanzitutto c’è da dire che in queste classifiche sanitarie ci sono i “buoni” e i “cattivi”, però non c’è una retrocessione: tutti stanno sempre in serie A, nessuno viene mandato in una serie inferiore o addirittura a casa (almeno sostanzialmente, visto che non si può farlo praticamente).

Non solo, ma conta che chi si trova in un certo anno nella posizione X l’anno successivo si trovi alla posizione X+Y o a quella X-Z? A ben guardare conta solo per chi (di solito: un politico, un manager, …) ha l’esigenza di dire “vedi come sono stato bravo” oppure si deve giustificare perché i media (o i soliti avversari denigratori) gli hanno fatto osservare che è arretrato in classifica.

Non entriamo nel merito delle modalità (e relativi tecnicismi) con cui sono compilate queste classifiche, tanto chi perde troverà sempre una giustificazione per dire che quell’indicatore ovvero quell’altro non è adeguato e sarebbe meglio usare quell’altro ancora: discussione giusta, scelta tecnica sempre aperta e sempre rivedibile, ma che però può e deve essere basata sui dati disponibili e non sui propri desiderata, anche se sappiamo che i dati (nonostante tutto) non sono la realtà, ma solo una sua rappresentazione che spesso viene utilizzata per essere adoperata come la coperta di Linus.

Attenzione, chi scrive ha fatto dell’acquisizione dei dati e della loro analisi e interpretazione il proprio mestiere e quindi conosce bene i pregi e difetti dell’argomento: per questo quelle esposte non sono critiche a chi si assume il compito gravoso, ma necessario, della valutazione, bensì sono un invito a lasciarsi interrogare dai risultati, a prenderli come spunto per una riflessione, ad approfondirli per estrarre da loro il massimo dell’informazione possibile, rinunciando allo stupido e inutile esercizio di tirare la coperta dalla parte che interessa, perché se la coperta è corta…

E allora diciamo chiaramente il nostro pensiero. Le classifiche fanno notizia, sono cibo succulento per l’informazione (o disinformazione?) e per la polemica (soprattutto politica) di basso profilo. Se proprio proprio non vogliamo farne a meno prendiamole come spunti e stimoli per migliorare, per assumere impegni su cose da fare, ed evitiamo il gioco delle coccarde (quanto sono bravo io) o delle giustificazioni. Non sono le classifiche quelle che servono: sono invece fondamentali le valutazioni, cioè il processo verso il miglioramento continuo della qualità del servizio erogato, processo che purtroppo lascia a desiderare visto che col passare degli anni (e delle classifiche e valutazioni) quelli che vanno meglio e quelli che vanno peggio sono sempre gli stessi.

Servono le valutazioni, come ad esempio quelle citate (Crea, Lea, Istat), ma anche tante altre, e serve soprattutto che le valutazioni insegnino, muovano e stimolino il cambiamento, operazione che purtroppo non ci lascia tranquilli visti i risultati negativi ripetuti negli anni dagli stessi “concorrenti”.

In proposito, c’è discussione sull’opportunità di introdurre in sanità dei percorsi premiali e/o di penalizzazione, di usare lo strumento economico-finanziario per aggiungere o togliere risorse (e a chi?) in base all’esito della valutazione: quale sia il percorso migliore da adottare non è del tutto chiaro (o condiviso), ma è certo che una valutazione (non una classifica) che non lascia il segno rimane un esercizio accademico utile solo per arricchire curricula e riempire librerie (o spazio nei computer, visto che la stampa su carta non è più un obbligo).

Il nostro, allora, non rappresenta un invito a smettere di valutare, sarebbe un errore madornale, ma si tratta piuttosto di un appello perché si crei un legame serio e proficuo, quasi obbligato, tra chi valuta e chi deve decidere: senza questo collegamento, da studiare ovviamente nelle sue forme realizzative, le valutazioni restano solo materiale per polemiche temporanee.

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