Anche l’accoglienza degli immigrati, tema spinoso trattato spesso nel migliore dei casi come un problema da risolvere, può divenire un’occasione per un percorso di crescita, integrazione, educazione, lavoro. Accade quando chi agisce, nell’ambito di una realtà del Terzo settore, sa guardare negli occhi i ragazzi che accoglie…

“Circa 4 anni fa giunse su un barcone dal Nord Africa un bambino di circa un anno. Non era accompagnato e nessuno sapeva chi fosse. Fu preso in carico da una comunità e a me fu dato dal Tribunale il compito di Tutore. Dopo alcuni giorni le assistenti sociali mi dissero che in una tasca del vestitino gli era stato trovato un numero di telefono. Con molto tremore composi quel numero che era della Tunisia e rispose una donna, che tra un francese smozzicato e tanti pianti mi rivelò di essere la sua mamma e di essere ormai convinta che il bambino fosse morto”.

Questa storia ci è stata narrata da Valeria Antinoro, che da alcuni anni si prende cura a Palermo di tanti bambini in difficoltà, molti dei quali giunti in città sulle rotte dell’emigrazione clandestina. Ma la storia non finisce qui.

“Ci ponemmo subito – prosegue – il problema del ricongiungimento familiare, ma si rivelò molto complesso; l’iter presso il Tribunale dei minori è durato due anni. La nostra associazione ha pagato il viaggio, ha trovato una sistemazione provvisoria ecc. Quando i genitori sono giunti il bambino parlava italiano e aveva difficoltà a capirli. Solo a questo punto abbiamo appreso come erano andate effettivamente le cose. Al momento dell’imbarco era scoppiato un conflitto a fuoco con la Polizia locale che voleva impedire la partenza del barcone, con conseguente fuggifuggi generale. Il barcone tuttavia partì ugualmente, con il bambino a bordo. Adesso vivono tutti a Palermo, il papà, che ha 27 anni, è un agricoltore e ha trovato lavoro in un vivaio, e siamo in attesa di trovare un piccolo appartamento dove possono iniziare una loro vita familiare autonoma”.

Questa è forse la storia più toccante, ma tante altre ne sono accadute, e i racconti di Valeria Antinoro, Presidente dell’Associazione “Di sana pianta”, associazione di Tutori volontari iscritti al Tribunale per i minorenni di Palermo, sono come un fiume in piena.

La sua associazione segue i ragazzi nel percorso di crescita e integrazione, li sostiene negli studi, nella ricerca di un lavoro e dell’autonomia abitativa, “assecondando le attitudini e i desideri, spronandoli costantemente ad avere fiducia in sé stessi e in un futuro migliore che ai loro occhi sembrava ormai inaccessibile”, come si legge nel sito.

Nella casa che gestiscono, un bene sequestrato alla mafia, abitano attualmente una famiglia, una mamma ucraina con due bambini, 4 ragazzi che sono usciti dalle comunità di accoglienza, e che continuano a seguire come “mentori”. Hanno tutti fatto un percorso di studi e possiedono un titolo di studio. “È una convivenza – aggiunge – multi etnica, multi lingue e multi alimentare, ma alla fine si capiscono tutti e si aiutano anche fra loro”.

Da quasi due anni ospitano anche 40 donne ucraine. “Dopo la prima fase di grande generosità delle famiglie palermitane – racconta – adesso trovare una stabile sistemazione è sempre più difficile. L’Amministrazione comunale ci ha finora aiutato con vari sostegni economici, soprattutto per trovare loro un’abitazione. Ma la cosa non è facile perché i privati non vogliono affittar loro le case. Anche trovare un lavoro per quanto precario è difficile. Ovviamente sono tutte sole e con bambini e molte disperano di poter tornare in patria, anche perché le loro case e le loro città sono distrutte”.

Tra gli aiuti che ricevono c’è anche quello del Banco Alimentare, e qui il racconto si fa più interessante. “Dopo aver stipulato la convenzione, abbiamo iniziato a distribuire gli alimenti mensilmente. Ma questo gesto ci ha fatto capire che le persone lo attendevano anche perché era un momento di socializzazione. Così adesso dura un’intera mattinata. La consegna del cibo è la scusa per parlare, per conoscersi di più, per esprimere gratitudine e aiuto, per mettere in comune ciò che ciascuno può dare. È divenuto un momento fondamentale della nostra attività e della loro vita”.

Prima di lasciarci le chiediamo com’è nato questo suo impegno.

“Ho sessant’anni. Ho lavorato nella Pubblica amministrazione e sono in attesa di pensione. Ho due figlie, di cui una sposata con una bambina di dieci anni. Fino a 55 anni facevo quello che fanno tutti: lavoro famiglia e anche per un po’ di carità. La molla del mio impegno a tempo pieno è stata la storia di questi ragazzi, incontrati in modo apparentemente casuale: la loro solitudine e mancanza di affetto, la consapevolezza di non poter contare su qualcuno in grado di aiutarli. Quando ho cominciato a guardarli negli occhi mi sono detta che non potevo continuare a fare la vita di prima. Fino a quando non mi hanno dato il primo ragazzo da seguire ero solo sensibile al problema. Ma quando l’ho guardato per la prima volta in viso tutto è cambiato. Avevo davanti non più un problema con cui confrontarmi, ma una persona cui dare una risposta con la mia vita innanzitutto. Così è cominciato e poi da quel giorno non si è più interrotto”.

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