Fra i provvedimenti che sono stati presi recentemente per gli insegnanti, senza entrare nel merito di valutarli singolarmente, mi sembra si stia affacciando una novità che, se si affermasse, potrebbe realmente modificare in meglio la scuola: la fine del mito del “docente unico”, o meglio del ruolo docente come indifferenziato per compiti, tempo impiegato, posizione nella gerarchia.
Finora, è prevalsa, ed è stata strenuamente difesa, la teoria vistosamente anomala che un’organizzazione che comprende alcuni milioni di utenti, o clienti o come preferite chiamarli, dai sei mesi ai diciannove anni, dovrebbe funzionare grazie al lavoro di una schiera di docenti tutti uguali, che fanno le stesse cose e se si specializzano e riescono a fare bene qualcosa di diverso o aggiuntivo, sono prontamente ricacciati nel gregge. Basti pensare alla misera fine delle “funzioni obiettivo” istituite dal Contratto nazionale di lavoro del 1999, che coinvolsero circa 40 mila insegnanti, di cui però quasi la metà dopo un anno lasciarono.
Si era trattato di uno dei pochi tentativi di arricchire il modello organizzativo della scuola per far fronte alle esigenze dell’autonomia, ma la convivenza fra insegnamento e compiti specifici (adottata per evitare la “fuga dalla didattica” che sembrava essere l’unica possibilità di sviluppo professionale) e la resistenza degli insegnanti, o quantomeno dei loro rappresentanti sindacali, a un riconoscimento di professionalità differenziate hanno rapidamente portato a uno svuotamento dell’esperienza. A vent’anni di distanza, è cambiato qualcosa?
Tanto per cominciare, e non è poco, è cambiata la scuola, con un aumento esponenziale della diversificazione nell’utenza, con una presenza diffusa di ragazzi di origine straniera, passati da poco più di centomila a 876 mila (ma qui ci sarebbe da aprire un altro discorso), che però spesso sono nati in Italia o vi hanno fatto tutto il loro percorso scolastico, ma anche in termini dei compiti assegnati, che sono – o dovrebbero essere – sempre meno fissati in modo standardizzato, per rispondere a una domanda così differenziata. Anche se solo parzialmente realizzata, la scuola dell’autonomia richiede agli insegnanti di abbandonare l’ottica “impiegatizia” di routine, per adottare un approccio professionale flessibile, per accrescere la personalizzazione dei percorsi e integrare le diverse proposte formative formali, informali e non formali che oggi raggiungono i ragazzi.<
A parte la resistenza della struttura burocratica, che in questa impostazione vede diminuire il suo potere di controllo, nella formazione del “docente unico” non c’è nulla che lo prepari ad agire, come si diceva già negli anni Novanta, come un professionista che opera all’interno di un’organizzazione ed è in grado di integrare gli obiettivi personali con quelli dell’organizzazione: il percorso formativo e di carriera (if any, come direbbero gli inglesi) punta esclusivamente alla valorizzazione degli aspetti formali.
La scuola è cambiata però anche dal punto di vista della domanda sociale, assumendo sempre più compiti che non le toccherebbero in modo specifico, ma che in mancanza di altri attori vengono caricati su di un orario già molto pesante: sono le varie “educazioni”, alla salute, all’ambiente, alla legalità… a cui si aggiungono in modo sempre più massiccio il rapporto con il mercato del lavoro, e l’orientamento, determinando un vero e proprio sovraccarico funzionale. Non si tratta di cambiamenti occasionali, ma strutturali: come scriveva una decina di anni fa Giancarlo Cerini, “La trasformazione della scuola in senso autonomistico presenta alcune caratteristiche che influenzeranno sempre più la professionalità dei docenti: la centralità del processo di insegnamento-apprendimento; il passaggio da una prevalenza dell’aspetto trasmissivo a quello di mediazione culturale; l’emergere di nuove responsabilità, funzioni, compiti (ad esempio, di tutoring); il bisogno di conciliare l’autonomia culturale professionale del singolo insegnante con la collegialità e la cooperazione nel lavoro di team”.
In questo senso, il concetto molto sbandierato di “libertà di insegnamento” si svuota di contenuto, per valorizzare invece la collaborazione nell’ambito di un progetto educativo: questo richiede non solo una preparazione disciplinare (anche ammesso che quella oggi impartita non sia inadeguata…) e nelle competenze trasversali e non cognitive, ma anche il senso di appartenenza a un’istituzione, l’assunzione di responsabilità, lo sviluppo di una cultura organizzativa che richiede l’apporto di figure che non hanno perso il ruolo docente, ma lo hanno integrato con altri, finalizzati al buon funzionamento dell’istituzione.
Si comincia, allora, dal docente tutor e dal docente orientatore, chiarendo che si tratta di due funzioni distinte (e, per inciso, che nulla tocca alle scuole paritarie: nihil sub sole novum…), con una formazione di venti ore gestita on line da Indire: mi colpisce molto che i dettagli presenti nei siti per gli insegnanti, anche i più seri, riguardino prevalentemente gli aspetti retributivi e di impegno temporale, piuttosto che quelli teorici e di contenuto. La norma prevede, ad esempio, che l’orientamento dovrebbe essere realizzato in un modulo di trenta ore, senza tenere conto del fatto che il tempo è una risorsa scarsa, e “sottrarre” trenta ore ai normali programmi comporta pesanti difficoltà.
Sono disponibili almeno due modelli alternativi: quello duale, per cui ogni docente dedica parte delle sue ore di insegnamento all’orientamento, e il ruolo dell’orientatore è quello di aiutare e coordinare i docenti, e quello per cui si realizzano dei momenti extracurricolari del tipo settimana a tema (che di fatto sono una trentina di ore) che si aggiunge alla normale attività didattica e comporta la realizzazione di iniziative personalizzate. La scelta dovrebbe essere fatta tenendo conto delle caratteristiche della scuola, e richiede dunque una capacità organizzativa che non pare presente nel profilo del docente tutor.
Speriamo solo che il docente, non più uno, e non ancora centomila, non faccia la misera fine di Vitangelo Moscarda, che creduto pazzo muore solo e squattrinato…
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