Il 2023 s’appresta ad essere un anno record per il turismo italiano, con un incremento delle presenze di stranieri di circa il 12% rispetto al 2022 e il definitivo superamento della crisi conseguente all’emergenza pandemica. Particolarmente interessanti sono i dati relativi al turismo giovanile, quello della fascia tra il 18 e i 34 anni, e – in particolare – quello della generazione Z: si calcola che circa il 50% dei giovani italiani andrà in vacanza, con un aumento significativo dei numeri assoluti rispetto al triennio precedente. Si tratta di piccole esperienze nelle grandi città italiane, vacanze al mare, cosiddetti “viaggi di maturità”.
Al di là di ogni retorica, la vacanza, soprattutto per i ragazzi, è sinonimo di libertà. Il punto è che la poesia finisce qui perché, scendendo in profondità, la vacanza è soprattutto sinonimo di liberazione, di accettazione incondizionata di ogni impulso, di fame di vita che diventa pericolosa ingordigia. Da che cosa scappano i ragazzi? Da che cosa desiderano essere liberati?
Una risposta univoca e generica per tutti chiaramente non c’è, eppure è possibile rintracciare tre parole chiave, simbolo di un’intera generazione. Si scappa anzitutto dalla tristezza, dall’aver constatato tutta la sproporzione tra quello che al cuore è stato promesso e quello che, invece, c’è. È la tristezza per la scoperta, tutt’altro che infrequente, che quello che gli adulti avevano detto su di me, sui miei talenti, sulle mie possibilità, in realtà non è così vero: loro avevano prospettato una vita tutto sommato semplice e ricca di soddisfazioni, mentre invece c’è la fatica.
E questa fatica mette in dubbio l’autostima e la consapevolezza della persona: io non sono come dovrei essere, quindi sono un fallimento, sono guasto, irrimediabilmente perso. Eppure, ogni ragazzo potrebbe dire di aver visto il bello, il buono, il vero, ma proprio il fatto di averlo incontrato o di averne fatto esperienza finisce con il far emergere tutta l’incapacità dell’Io di stare all’altezza di ciò che il cuore pre-sente. Laddove dovrebbe dunque fiorire una domanda di salvezza, l’esperienza originale della preghiera, sorge solo una tristezza da cui fuggire.
Questa tristezza si porta con sé una conseguenza non banale: la rabbia. La saccenza e la presunzione di tanti giovani universitari arrabbiati nascono dalla convinzione radicata che le generazioni precedenti abbiano fatto incetta di tutti gli strumenti, sociali, economici, esistenziali e politici, necessari alla felicità della generazione successiva. Le polemiche sul lavoro, sulla casa, sui servizi – che, a scanso di equivoci, va detto che sono giustificate e non banali – sono in realtà l’espressione di un sentimento più profondo, di un risentimento che si tramuta in aggressività, in latente violenza.
Si parte per le vacanze anche per mandare “a quel paese” tutto e tutti, un sistema corrotto e insostenibile, dove l’ambiente e i diritti – nell’ottica di questo livore – sono calpestati da una generazione perversa e già sconfitta dalla storia. Tristezza e rabbia, tuttavia, sono un nonnulla rispetto al motore vero che alimenta la voglia d’evasione dell’estate: davanti ad un Io che si scopre “guasto” e defraudato degli strumenti che dovrebbero garantirgli il riequilibrio delle sorti – perché quello che un tempo si cercava in Dio oggi si cerca negli uomini –, ciò che resta è una sconfinata solitudine.
La solitudine non è soltanto un dato della modernità conseguente all’indebolimento dei legami sociali, e non è neppure un dato esclusivamente psicologico o interiore, la solitudine oggi nasce dall’accorgersi che io non sono più capace di stare con te, di lavorare con te. La gente ha perso una delle dimensioni peculiari dell’essere umano: la capacità di stare insieme, di fare insieme, di decidere insieme. E questo nasce dall’incomunicabilità che oggi segna le relazioni interpersonali, un’incomunicabilità che è figlia dal non avere più alle spalle la stessa esperienza dell’umano, del significato, del senso. Oggi parliamo tanto di quello che facciamo o di quello che ci capita, ma spesso non abbiamo neppure un cane per parlare di quello che siamo, del dolore che ci attraversa e che ci fa uomini.
In estate si va in vacanza per riposarsi, per recuperare forze ed energie, ma non sono pochi i ragazzi che partono per liberarsi da questo nulla che li opprime e in cui sono stati gettati. Chiaramente, siccome come dice Murakami “esistono cose di cui uno non si può liberare, per quanto lontano vada”, il dolore uno se lo porta con sé e in vacanza – non essendo abituato a produrre significato – continua ad abitare il nulla. La fame di vita diventa sballo, diventa sfida al pericolo, diventa esercizio di ybris espresso in comportamenti che sanno di rivendicazione, di giustizia, di grido estremo che in pochi colgono perché tutti protesi alla condanna e alla misura.
Per fortuna la partita non finisce qui. La realtà, infatti, è sempre pronta a svelare il suo segreto a chi abbandona per un istante il fronte della rivolta. La letizia e la certezza davanti a questo nostro tempo non è data da quello che noi possiamo fare per i figli o per i ragazzi, ma dall’evidenza di una Presenza che ama meglio di noi, che cura meglio di noi, che abita la vita sempre e fino in fondo. Capita così che, in una sera d’estate sul mare o al tramonto del cielo di Toledo, da un rifugio fra la Dolomiti o in una musica che ci fa ballare ad una festa, uno si accorga di qualcosa che gli sfugge, uno intercetti qualcosa che non torna, che non va, che lo tormenta. La fede non aggiusta tutto, ma è la proposta nascosta dentro tutto. Accoglierla non è un’utopia o un desiderio da custodire per gli altri, ma è l’unico lavoro che ci spetta. L’unico lavoro che ci aspetta. L’unica vacanza in cui ogni cuore in fuga può davvero riposare.
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