La Camera ha approvato qualche giorno fa il disegno di legge il cui titolo recita “Disposizioni per la prevenzione della dispersione scolastica mediante l’introduzione sperimentale delle competenze non cognitive nel metodo didattico”, con un testo ampiamente modificato rispetto al disegno originario, su cui, devo ammetterlo, ero molto critica, perché mi pareva troppo vago e in qualche modo raffazzonato. La nuova versione, approvata da un’ampia maggioranza e su cui non c’è un forte disaccordo delle opposizioni (ricordiamo che nasceva da una proposta dell’Intergruppo per la sussidiarietà, uno dei pochi spazi della vita politica in cui avviene un dialogo forse minimo, ma reale) è molto più articolata e realistica, e presenta più luci che ombre.
La prima e fondamentale osservazione è che la dispersione scolastica viene considerata non più come l’esito di un mancato apprendimento, ma come un problema che coinvolge tutta la persona, non solo per gli aspetti socioeconomici già ampiamente indagati dalla ricerca – e che non vengono negati o sottovalutati -, ma perché per un’educazione che sia veramente tale vanno chiamate in gioco competenze più complesse, che il testo della legge definisce “non cognitive”, dettagliandole poi in trasversali e non cognitive, quindi con una visione più globale e olistica. Queste competenze non sono patrimonio di pochi, magari dei licei classici, ma riguardano tutti, anche chi è nei percorsi di Istruzione e formazione professionale o nella formazione permanente: e una vasta e articolata sperimentazione, da me coordinata per la Fondazione per la sussidiarietà e la Fondazione per la scuola della Compagnia di san Paolo, che si sta avviando alla conclusione, è partita proprio dall’esperienza di un CFP di Torino, la Piazza dei Mestieri, e ha coinvolto due CFP a Torino e a Foggia, con risultati largamente positivi.
Il testo è lungo e dettagliato (e in qualche punto, all’occhio di chi si occupa di scuola da molti anni, appare frutto di una inevitabile mediazione) e andrà rivisto insieme al regolamento attuativo per valutarne la reale portata, ma già alcuni aspetti meritano attenzione. Anzitutto, si introduce il concetto di una sistematica valutazione, a partire dalla mappatura delle esperienze e dei progetti già esistenti. Nella sperimentazione di cui ho parlato, e su cui ritornerò ancora, la fase preliminare è consistita precisamente nella raccolta di una ventina di cosiddette “buone pratiche”: poiché però non esisteva un quadro di riferimento comune, le esperienze erano le più disparate, rendendo così difficile un confronto.
Abbiamo circoscritto l’analisi alle sole competenze socioemotive e ai tratti di personalità, perché le sperimentazioni sulle competenze trasversali sono più consolidate, e abbiamo riscontrato la presenza dei tre principali tipi descritti in letteratura: introduzione di un’area specificamente definita “competenze non cognitive”, affidata a uno o più insegnanti, in aggiunta alle normali materie, con la difficoltà di ricavare della ore in più nell’affollato curricolo disciplinare delle scuole; presenza di un’attenzione specifica, nelle singole materie, senza diminuirne il monte ore, e in questo caso la difficoltà è quella di sensibilizzare i singoli insegnanti e di trovare un coordinatore che garantisca e faciliti questo lavoro di gruppo; infine, realizzazione di moduli in spazi extrascolastici, sotto la forma di laboratori o di learning weeks. Più che una dettagliata descrizione normativa, che rischia di diventare una gabbia, servirebbe una maggiore flessibilità organizzativa in termini di utilizzo dei docenti e delle risorse, di formazione dei gruppi, di articolazione dei tempi.
Ci sono state anche interessanti forme di personalizzazione, in cui gli insegnanti non hanno coinvolto la classe come unità monolitica e indifferenziata, ma hanno predisposto piccoli moduli formativi per ragazzi anche di classi diverse, ma con bisogni analoghi. Ciò posto, l’analisi dell’impatto e dei risultati non sarà semplice: ad esempio, il rapporto del nostro progetto con Invalsi per capire se esiste una relazione fra miglioramento delle competenze NCS e miglioramento delle competenze cognitive misurate dai test Invalsi è stato avviato solo di recente, dopo due anni di lavoro, perché prima è stato necessario descrivere le competenze selezionate, individuare gli indicatori da osservare e trovare il modo di misurarle.
Sempre nell’ambito della valutazione, la legge prevede l’istituzione di un comitato tecnico-scientifico, che opera in base ai criteri definiti dal ministero: sull’utilità dei comitati ha più volte espresso la mia perplessità e non ci tornerò sopra, ma il rischio che si trasformi in un ennesimo ingranaggio burocratico esiste: analogamente, la sola valutazione finale rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, mentre una valutazione in corso d’opera con le indicazioni per eventuali modifiche consentirebbe di correggere la rotta in tempo reale, valutazioni e indicazioni che, se il sistema funzionasse a regime, potrebbero essere compito del sistema ispettivo o di una parte di esso, e dell’Indire, che seguendo la formazione avrebbe tutti gli elementi necessari a supportare le scuole anche in rapporto alla certificazione delle competenze chiave europee, a cui si fa correttamente riferimento.
Un tema cruciale è quello della formazione degli insegnanti, dal momento che, come recita una citazione da me più volte ripresa, “politici e pedagogisti scrivono le riforme, ma sono gli insegnanti che possono attuarle o farle fallire”. Posto che sensibilizzare e formare gli insegnanti su questo tema non è facile (nella nostra sperimentazione questa attività ha occupato tutto il primo anno), il rischio è quello di una sovrapposizione fra le formazioni già previste, come quella per i tutor orientatori, che comprende elementi di NCS oltre che di competenze trasversali, ma in modo non sistematico e indirizzato, come è obiettivo dell’attività dei docenti tutor, a un sostegno individuale per una trentina di ragazzi degli ultimi anni della secondaria di secondo grado, mentre la legge prevede l’introduzione anche nella secondaria di primo grado. Questo è un possibile punto debole da definire nei regolamenti, perché non è detto che il metodo didattico (cui peraltro, secondo me correttamente, nel nuovo titolo del testo non si fa più riferimento) sia il medesimo nei due ordini di scuola, nell’Iefp e nella formazione degli adulti. Il coinvolgimento delle organizzazioni della società civile è largamente positivo soprattutto per il collegamento con il mercato del lavoro, mentre manca ogni riferimento alle famiglie, che sono fondamentali per l’interiorizzazione delle NCS nei primi anni di vita, ma conservano una innegabile importanza anche più avanti nel tempo, come modelli posizionali e di comportamento per i ragazzi.
Per chiudere, vorrei citare alcune delle conclusioni formulate da Norberto Bottani in un convegno sulle competenze nel 2010, che mi sembrano profetiche rispetto alla discussione in atto, ma mi limiterò alla prima, perché anticipa la filosofia della legge: “si deve fare tutto il possibile per eliminare il fallimento scolastico alla fine della scuola dell’obbligo: occorre fare in modo che tutti gli studenti, nessuno escluso, apprendano lo zoccolo di conoscenze o competenze essenziali e lascino la scuola con un bagaglio di competenze ritenute essenziali per vivere nella società contemporanea. Non basta proclamare obiettivi ambiziosi, declamare programmi strabilianti ma che solo pochi realizzano. La scuola dell’obbligo odierna è la scuola dalla quale nessuno deve andarsene senza avere acquisito le conoscenze e le competenze di base. Questo obiettivo è conseguibile ed è il primo punto da rivendicare”.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.