In questi ultimi mesi sono apparsi, sia sulla stampa specialistica che su quella generalista, e non ultimo con la proposta di referendum sulla sanità in Lombardia promossa da Medicina Democratica, Cgil e Acli, numerosi articoli che hanno posto in discussione la presenza del privato in sanità. Non è sempre chiaro se si stia parlando del privato accreditato con il servizio sanitario, cioè di quelle strutture e attività che fanno parte esplicita del Ssn e vengono finanziate con le risorse del Fondo sanitario nazionale, oppure del privato non accreditato e che agisce quindi sul mercato come un qualsiasi operatore economico di qualsiasi altro settore produttivo, oppure ancora del privato non profit così tanto presente, ad esempio, nel settore socio-sanitario (ma anche in quello più strettamente sanitario), ma è senz’altro chiaro che la maggioranza dei contributi letti è molto critica nei confronti di questa presenza attribuendole addirittura la responsabilità di essere l’origine di tutti i guai che vengono oggi attribuiti al nostro Ssn.
I più critici vedono il privato come “la grande marchetta” del Ssn, e alla luce della loro valutazione di come sta evolvendo il settore sanitario prevedono addirittura la fine della sanità “pubblica” completamente soppiantata dalla sanità “privata”. Si veda, a titolo di esempio per l’ampiezza della trattazione, il volume di Ivan Cavicchi “Sanità pubblica addio. Il cinismo delle incapacità” (Lit Edizioni, 2023), ma anche (a dimostrazione dell’estremismo cui si è arrivati) il recente contributo di Anaao Assomed (Quotidiano Sanità, 1/8/2023) che con esempi pratici prefigura quanto dovranno pagare i cittadini in un Ssn del tutto privato (domanda: e chi l’ha mai proposto?).
Pensavo che il dibattito sulla questione pubblico-privato in sanità fosse un argomento nella sostanza sepolto dall’evoluzione storica del nostro servizio sanitario, seppur periodicamente ripreso in maniera sporadica da taluni giusto per ricordare che sulla questione è sempre meglio tenere gli occhi aperti e le antenne allertate, ma la forza con cui l’argomento è stato riproposto e la virulenza del linguaggio utilizzato mi hanno riportato alla fine degli anni ’90 del secolo scorso e allo scontro ideologico-politico tra il Presidente della Lombardia (Formigoni) che aveva appena fatto approvare la legge di riforma della sanità regionale (legge 31/97) che (tra altre novità) apriva al privato accreditato, e il ministro della Sanità Rosy Bindi che si fece carico di contrastare con forza l’applicazione di quella legge regionale. Ho vissuto in prima persona quegli anni e, al di là dei rispettivi meriti e demeriti delle due parti (pubblico e privato, intendo) e delle rispettive ragioni messe sul tavolo dai due contendenti (Formigoni e Bindi, intendo), ho apprezzato che da un po’ di anni la questione non si era più riproposta se non nella forma civile di una discussione sempre aperta, come sempre aperto è il dibattito su cosa funziona o non funziona nel nostro Ssn.
Ebbene, devo ammettere di essermi sbagliato: a leggere questi contributi sembra proprio che tutti i mali presenti nel Ssn, tutti i problemi della sanità del nostro Paese, trovino la loro origine nella presenza del privato e che pertanto l’unica soluzione a cui si deve ragionevolmente guardare sia quella di espellere il privato dalla sanità dirottando sul pubblico le risorse che oggi arrivano alla sanità privata.
L’argomento è troppo ampio e ha troppe sfaccettature per essere compiutamente trattato in un editoriale, per cui ho selezionato quello che (a mio insindacabile giudizio) è il sub-argomento di maggiore valore discusso dai critici e cioè il riferimento all’art. 32 della Costituzione. Si tratta di un articolo breve che dice: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Se per salute si intende la definizione che tuttora ne dà l’Organizzazione mondiale della sanità (“uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente la assenza di malattia e di infermità”) è almeno doveroso innanzitutto chiedersi chi sarebbe in grado di tutelare realmente tale diritto: l’attribuzione di questo compito alla nostra Repubblica, poiché “ad impossibilia nemo tenetur”, suona più come una chiara fuga in avanti verso il mondo del sovrannaturale che non un impegno reale che la Repubblica si deve ragionevolmente assumere.
Ma fermiamoci qua con le definizioni e accettiamo anche una visione molto più ridotta e praticabile di salute depurata di voli pindarici verso la felicità: quello che è assolutamente chiaro nella terminologia dell’art. 32 è invece che l’obiettivo della tutela di questa salute è un compito della Repubblica. E si badi bene, per non indurre proiezioni di pensiero fuori luogo, che si è usato proprio il termine “Repubblica” (e non, ad esempio, quello di Stato”) per evitare di evocare che questa tutela venga pensata come un oggetto “statale” (e nella poi riducente accezione di “pubblico”).
Con che tipo di sanità può essere raggiunto questo obiettivo di tutela? L’art. 32 e la sua implementazione attraverso la legge fondativa del Ssn (legge 833/1978) prefigurano forse una sanità solo “pubblica”? Premesso che il termine “sanità pubblica” in senso proprio è usato solo nel contesto delle attività di prevenzione, non c’è nulla nella 833 (e men che meno nella Costituzione) che prefiguri un Ssn esclusivamente “pubblico”, ma anzi si parla esplicitamente anche di strutture convenzionate, e successivamente (legge 502/1992, legge 229/1999) di strutture private accreditate. Perché allora continuare con la falsa pretesa che la sanità debba essere “pubblica” perché lo dice l’art. 32 e che se non fosse esclusivamente “pubblica” la salute di cui a quell’articolo della Costituzione non sarebbe tutelata?
Se al termine “sanità” (o servizio sanitario) vogliamo proprio proprio aggiungere un aggettivo che lo qualifichi allora aggiungiamo: buona, adeguata, gratuita, efficace, efficiente, amica, equa, vicina, e via di questo passo con tutti gli attributi con cui ci piacerebbe qualificarla. C’è forse qualche pregio esclusivo nell’attributo “pubblica” per il quale senza di esso non è possibile la tutela della salute di cui all’art. 32?
Di molti cambiamenti ha bisogno la nostra sanità, e queste colonne ce lo ricordano continuamente, ma non necessita di sicuro di un inutile e superato dibattito attorno alla domanda se debba essere esclusivamente “sanità pubblica”: ci basta la “sanità”, senza bisogno di ulteriori specificazioni.
Ma non finisce qui: sarà necessario tornare sull’argomento.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI