Quando l’indice Istat segnala una decisa frenata dell’inflazione – in Italia così come in tutta l’Ue – il prezzo della benzina in autostrada è al suo record. E il dibattito politico-mediatico diventa rovente: a differenza di quanto è accaduto a cavallo del voto 2022. Quando Giorgia Meloni ha formato il suo Governo l’inflazione italiana era in orbita oltre quota 11%, il doppio dell’ultima registrazione. È un paradosso che sembra meritare qualche approfondimento.

Un anno fa l’inflazione statistica era in ascesa rapida e ripida (assieme ai tassi d’interesse alzati come correttivo dalle banche centrali), ma partendo ancora da una lunga “fase zero”, nonostante la pandemia avesse già riacceso i prezzi. L’inflazione percepita aveva dunque – oltre a un progress graduale – una lettura chiara presso Governi, banchieri, imprese, consumatori e risparmiatori. Era un sintomo – atteso – di “long Covid”: era causata dalla distruzione e lenta ricostruzione delle “supply chain” del commercio globale, dai porti chiusi e dai collegamenti a singhiozzo fra un lockdown e l’altro. La crisi russo-ucraina aveva poi aggiunto la “militarizzazione” delle risorse energetiche: ma la buona performance dei Governi occidentali nel reggere l’urto del super-gas nell’inverno scorso si era sommata all’aspettativa di una guerra non lunga ed entro certi limiti circoscritta. E in ogni caso le quotazioni di gas e petrolio sul mercato si sono nel frattempo semi-normalizzate: non da ultimo perché la Russia le sue risorse ha continuato a venderle comunque (anche all’Occidente attraverso triangolazioni).

Ciò che oggi risulta invece difficile contrastare è invece l’aspettativa diffusa che nulla possa tornare “as usual”, come prima. L’inflazione da Covid e poi quella da “guerra breve” è scappata in avanti, in mille rivoli: non solo alla stazione di servizio o nelle tariffe delle compagnie aeree. È impossibile riacciuffare una lepre che – dal canto suo – ha ridato buonumore a tutte le imprese: non solo ai giganti dell’oil & gas, reduci da utili annuali 2022 che rimarranno probabilmente ineguagliati. Come del resto accusare di “speculazione” un benzinaio o un albergatore che fra il 2020 e il 2021 ha dovuto affrontare periodo di chiusura totale o di consumi a scartamento ridotto? E com’è possibile convincere l’opinione pubblica che la crisi geopolitica è alle spalle quando tutti i Governi occidentali (a cominciare dagli Usa) annunciano all’unisono la “de-moltiplicazione” degli scambi di beni e investimenti con la Cina? Com’è possibile immaginare che un prezzo del petrolio stabile quando un produttore come l’Arabia Saudita sta apertamente cercando un suo ruolo di player fra Occidente e Oriente, fra Nord e Sud? A modo loro le offerte stratosferiche lanciate a Ryad sulle stelle del calcio hanno come effetto plastico una specifica inflazione: pesantemente competitiva verso i campionati europei.

L’inflazione al 5% – soprattutto se non dovesse ritornare in tempi ragionevoli alla soglia-regime del 2%, statutaria per la Bce – rischia di essere più insidiosa di quella – lungamente a doppia cifra – che flagellò l’Occidente dopo lo choc petrolifero degli anni ’70. Soprattutto quando in Italia una brusca frenata del Pil ha presentato il primo conto del contrasto all’inflazione a doppia cifra esclusivamente via politica monetaria. Il soft landing – non  ancora certo negli Usa – è ancora meno certo nell’Ue e lo spettro della stagflazione pare aggirarsi più visibile, a quasi quattro anni – ormai – dalla scintilla di Wuhan.

Nessun Governo nazionale in Europa può permettersi di giocare da solo contro la nuova “inflazione percepita”. E nessuna forza politica – di Governo o di opposizione – può pensare di scherzare con il fuoco: né inseguendo neo-populismi, né rispolverando vetero-tecnocrazie. Sarà un lavoro faticoso, di “concertazione” su più livelli, nazionali e sovranazionali. Ma non sembra esserci altra opzione reale.

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