Riforme istituzionali, senza estremismi

Il confronto sulle riforme istituzionali rincorre logiche competitive tra i partiti, occorrono un dialogo vero e proposte organiche ed equilibrate.

Il tema delle riforme istituzionali, ovvero il bisogno di rendere più efficiente la macchina statale, definendone l’architettura istituzionale, è da sempre all’ordine del giorno. La storia delle riforme istituzionali è tuttavia costellata da molti buoni propositi ma scarsi risultati in termini di convergenze politiche che possano assicurare una ristrutturazione organica e lungimirante dell’assetto istituzionale complessivo. Negli anni, a partire dalla cosiddetta prima repubblica con la Commissione Bozzi (IX legislatura 1983-1987) e la Commissione De Mita-Iotti (XI legislatura 1992-1994) passando poi con l’avvento della cosiddetta seconda repubblica alla Commissione D’Alema (XIII legislatura), al ddl costituzionale Calderoli (XIV legislatura 2001-2006) fino all’ultimo tentativo realizzato con il ddl costituzionale Renzi-Boschi (XVII legislatura 2013-2018) sono state avanzate molteplici proposte di riforma, che andavano dall’eliminazione del bicameralismo perfetto al presidenzialismo, all’autonomia differenziata delle regioni. Queste ultime due, in particolare, sono al momento di grande attualità.

Allo stato attuale le due proposte di riforma oggetto di confronto in sede politico-parlamentare vertono da un lato sulla forma di governo, con il presidenzialismo che prevederebbe l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, ma anche con interpretazioni più orientate al modello francese del semipresidenzialismo e altre ancora più favorevoli al modello britannico del premierato con l’elezione diretta del Presidente del Consiglio; e dall’altro sulla piena attuazione di quanto è già stato avviato per il riconoscimento dell’autonomia differenziata alle regioni, ai sensi dell’art. 116, comma 3, Cost. che prevede di conferire alle regioni che ne facciano richiesta al governo, tramite stipula di un’intesa, ratificata dalla legge, ulteriori poteri rispetto a quelli già previsti in sede costituzionale.

Il parallelismo tra le due proposte di riforma non è casuale e nemmeno tecnico, e trova la sua ragione d’essere in una motivazione eminentemente politica: presidenzialismo e autonomia differenziata rispondono alle istanze delle due principali forze politiche della coalizione di governo, rispettivamente FdI e Lega, che in questo modo si controbilanciano a vicenda. Da un punto di vista giuridico, per introdurre il presidenzialismo occorrerebbe cambiare la Costituzione attraverso il meccanismo di cui all’art. 138: un percorso lungo, accidentato e farraginoso che con il Ddl Boschi-Renzi si è concluso con una bocciatura popolare in sede di referendum costituzionale confermativo. Mentre per l’autonomia differenziata si tratta di dare attuazione e conclusione ad un percorso già iniziato.

Tuttavia il parallelismo delle due proposte difetta anche di un requisito temporale, in quanto il cambiamento della forma di governo, sulla quale peraltro al momento non è stata presentata alcuna proposta articolata, implica tempistiche di approvazione lunghe; più contenute, invece, le tempistiche del regionalismo differenziato, che si pone, invece, come una piena attuazione del dettato costituzionale (il ddl Calderoli è stato depositato a febbraio di quest’anno). Occorre inoltre valutare le proposte delle Regioni capofila dell’autonomia differenziata nel 2017 (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), su cui lo Stato e le regioni avevano già imbastito una trattativa. Anche in questo il grado di complessità della vicenda non diminuisce, perché dovranno essere ridefiniti i “livelli essenziali delle prestazioni”, ovvero i diritti minimi che devono essere assicurati ad ogni cittadino italiano a prescindere dalla regione in cui risiede.

In questo frangente, in cui anche il confronto sulle riforme istituzionali in sede politica a tratti sembra inseguire più logiche competitive tra le formazioni politiche, è quanto mai opportuno segnalare alcuni auspici di metodo che dovrebbero guidare il processo delle riforme. In primo luogo occorre che alla base dell’elaborazione delle proposte vi sia un dialogo trasversale, costruttivo ed effettivo tra le forze politiche, affinché le riforme non diventino oggetto di veti incrociati dettati magari da calcoli elettorali, ma abbiamo una prospettiva lungimirante. A questo scopo occorre recuperare quello spirito costituente che nel dopoguerra aveva animato persone di culture politiche differenti e divergenti, ma accomunandole nel dialogo e nell’amicizia civile. In secondo luogo, le proposte di riforme devono essere improntate e ispirate ad un approccio organico, non contraddistinte da un approccio frammentario e contingente, rifuggendo gli estremismi.

Nel merito ciò significa, sulla forma di governo, garantire adeguatamente tanto il principio della rappresentanza quanto della governabilità, nonché rispettare, in ossequio al metodo delle moderne democrazie liberali, il principio di check and balance, ovvero l’insieme di meccanismi politico-istituzionali finalizzati a mantenere l’equilibrio tra i vari poteri all’interno dello Stato. Il presidenzialismo è sicuramente una forma di governo democratica, ma è difficile da costruire e incerta nei risultati. Non si esprime soltanto nell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che diventa anche capo del governo: senza una chiara distinzione dei poteri, si presterebbe a forme di autoritarismo incompatibili con la nostra tradizione democratica. Occorre perciò ridefinire complessivamente i rapporti con Camera e Senato, con le Regioni e con le autonomie, infine con il potere giudiziario e con la Corte costituzionale.

Sull’autonomia differenziata, occorre invece assumere come proprio il monito lanciato a più riprese dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: vanno attuate forme di cooperazione istituzionale tra i diversi livelli di governo valorizzando il ruolo che le regioni, con le loro reti, svolgono nel promuovere lo sviluppo del Paese, facendo in modo che la differenziazione delle competenze regionali non dia luogo a privilegi o tentativi di snaturare l’autonomia, assecondando aspirazioni separatiste o aumentando i divari sociali, economici e territoriali tra Nord e Sud.

Occorre piuttosto favorire percorsi virtuosi capaci di dar luogo ad una crescita adeguata e armonica di tutte le aree territoriali del Paese; permettendo, con un approccio flessibile e non centralistico, e in base al principio di favore che l’art. 5 riconosce alle autonomie, la possibilità alle regioni che fossero in grado di esercitare maggiori funzioni di poterlo fare a beneficio di tutti.

 

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