Scuola, la fiducia che non c’è più

Un anniversario passato sotto silenzio è quello dei decreti delegati del ’74. Dovevano aiutare la democratizzazione della scuola, ma è andata in una altro modo

Fra le molte ricorrenze che vengono celebrate ogni anno, mi sembra che una, di particolare interesse per il mondo della scuola, sia passata sotto silenzio. Il 30 luglio 1973, cinquant’anni fa, veniva promulgata la legge delega 477, “Delega al Governo per l’emanazione di norme sullo stato giuridico del personale direttivo, ispettivo, docente e non docente della scuola materna, elementare, secondaria e artistica dello stato”.

Punto di arrivo di un lungo processo di “democratizzazione” della scuola, sistematicamente interrotto prima dell’approvazione e infine accelerato dai movimenti del Sessantotto, la legge costituì un corpus organico di cinque decreti delegati, emanati nel maggio del 1974, che all’epoca suscitarono entusiasmo in chi si occupava di organizzazione scolastica, perché segnavano – o parevano segnare – il passaggio da una struttura centralistica al riconoscimento di un’autonomia delle scuole e di una partecipazione attiva dei soggetti sociali, dalla famiglia alla comunità educante, alla progettazione e al governo della scuola.

Certamente, almeno sulla carta, la vita della scuola veniva profondamente modificata, con l’istituzione dei nuovi organi collegiali, di organismi come  i distretti, che si ponevano come il luogo del legame fra il territorio e la scuola, il riconoscimento formale del diritto di assemblea, la riforma dello stato giuridico del personale della scuola: ma se si potesse veder in time lapse il ventennio fra i decreti delegati e il DL 299 dell’aprile 1994, con il testo unico delle disposizioni in materia di istruzione, si potrebbero evidenziare molti cambiamenti.

Ma lo spunto per ripescare i decreti delegati, e in particolare il dd 416 sugli organi collegiali è stata un’amara riflessione sul fatto che i rapporti fra insegnanti e famiglie sembrano oggi passare soprattutto dai ricorsi ai Tar contro le bocciature. La previsione pessimistica di chi prevedeva la trasformazione dei genitori in maldestri sindacalisti dei propri figli si è dimostrata realistica e in espansione, anche se pare che solo uno su dieci dei ricorsi venga accettato, in una situazione in cui la diffusione del registro elettronico consentirebbe ai volonterosi difensori dei propri rampolli di conoscere la situazione in tempo reale, contattando tempestivamente gli aguzzini per capire che cosa succede e come porvi rimedio.

In realtà io ritengo che sia l’intero impianto degli organi collegiali a dover essere ridiscusso, ma benché non siano mancate le proposte, finora non se ne è fatto nulla. Di qui la crescente disaffezione: alle votazioni, nel 2021, ha partecipato in media l’11% dei genitori, concentrati nella scuola primaria e secondaria di primo grado: dieci anni prima, sempre in media, erano stati più del 30%. Gli studenti delle secondarie sembrano anch’essi poco interessati alla costituzione e al funzionamento dei parlamentini, a cui  preferiscono le forme di gestione assembleare più o meno autorizzate.

L’esperienza mostrò quasi subito che tra i genitori interessati a partecipare erano sovra-rappresentati quelli di classe media e medio alta, oppure già variamente politicizzati in altre forme di associazionismo, rinforzando anziché ridurle le forme di marginalizzazione delle famiglie più povere. Questo fenomeno si manifestava con maggiore evidenza ai livelli più decentrati, come il Consiglio scolastico regionale e il Consiglio nazionale, organismo consultivo sostituito nel 1999 dal Consiglio superiore della Pubblica istruzione, che pur ridotto e semplificato (?!?) consta di 36 membri, quindici eletti dalla componente che rappresentano, quindici nominati dal ministero “tra esponenti significativi del mondo della cultura, dell’arte, del lavoro, delle professioni” eccetera eccetera, tre provenienti dalle scuole non statali e tre dalle scuole in lingua straniera. A livello locale, di singola scuola, invece, è ancora possibile una partecipazione meno formale, su cui però, tranne mobilitazioni su temi particolari, tende a prevalere un radicato disinteresse.

L’inadeguatezza delle forme di partecipazione previste non spiega però fino in fondo il ricorso delle famiglie al Tar. Qual è il valore educativo di vedere promossa una bambina che ha avuto sei insufficienze, perché mancano le motivazioni? Sei giudizi negativi non sono considerati una motivazione adeguata? E che tipo di progetto educativo positivo pensano i genitori che la scuola potrà realizzare con questa bambina?

Una delle poche certezze che restano a chi si occupa di formazione è che si tratta di un processo che vede coinvolti tre soggetti: la famiglia, la comunità e la scuola, oltre, si intende, ai ragazzi: ma se manca qualsiasi rapporto di fiducia fra la famiglia e la scuola, come sembrerebbe dai vari ricorsi al tribunale amministrativo, che peraltro deve decidere a prescindere dal significato educativo del provvedimento preso, ben difficilmente sarà possibile far nascere un rapporto diverso fra la scuola e i ragazzi, che tenderanno a considerare delegittimate le decisioni degli insegnanti.

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