Tassa sulle banche, la politica alla prova

Con la scelta di tassare gli extraprofitti delle banche, la politica è alla prova: forse la prima vera dopo le elezioni 2023

Poco più di trent’anni fa – era il settembre del 1992 – il Governo Amato decise in una notte il prelievo forzoso dello 0,6% dai conti correnti bancari. La lira era sotto attacco dei mercati e a una manovra correttiva d’emergenza mancavano 8mila miliardi di lire (circa 7 miliardi di euro attuali). Un Esecutivo para-tecnico sostenuto dal centrosinistra della Prima Repubblica – nel pieno di Tangentopoli – aggredì la capacità contributiva (patrimoniale) degli italiani che detenevano i propri risparmi in banca: un segmento fino a un certo punto trasversale nella platea dei contribuenti (non furono toccati, anzitutto, i possessori di titoli di Stato). L’impatto diretto sulle banche e sulla Borsa fu limitato. Gli istituti erano ancora di larga proprietà pubblica e le Popolari non erano quotate.

Le polemiche furono naturalmente forti: l’intervento si muoveva verosimilmente fuori dai principi costituzionali di equità fiscale e la sua concreta esecuzione fu per mille aspetti discutibile. La “stangata” fu però assorbita da un popolo di forti risparmiatori, che non perse la fiducia di base nel sistema bancario nazionale. Quel popolo, peraltro, diciotto mesi dopo concesse una netta maggioranza elettorale al centrodestra del debuttante Silvio Berlusconi. Amato fece a tempo a presiedere un altro “Governo a tempo” e infine la Corte costituzionale: ma quando il suo nome venne candidato – ripetutamente – alla presidenza della Repubblica, s’infranse anche sul marchio indelebile del “sei per mille”.

“Giusto o sbagliato”, fu un passo politico: reperire risorse fiscali finalizzate a tamponare la svalutazione della lira nel Sistema monetario europeo e il decollo dello spread fino a quota 800. L’obiettivo – evitare la deriva politico-finanziaria del sistema-Paese – fu in qualche modo raggiunto. Quella crisi fu anzi il punto di partenza dell’intera strategia di avvicinamento all’euro, imperniata poi su una massiccia politica di privatizzazioni: impostata dal Governo di Carlo Azeglio Ciampi e quindi da quello di Romano Prodi (con Mario Draghi in cabina di regia al Tesoro). Il traguardo dell’euro venne tagliato dall’Italia e Ciampi, Prodi e Draghi hanno in seguito tutti scalato importanti cariche istituzionali, in Italia e fuori. Sulle privatizzazioni italiane si continua a polemizzare, dal 1992 a oggi: com’è fisiologico in politica, soprattutto sulle grandi scelte economico-finanziarie (l’ultima è stata l’austerità del 2011, che ha colpito principalmente i pensionandi).

La decisione di tassare gli extraprofitti bancari – annunciata lunedì sera dal Consiglio dei ministri – è politica, al livello di quelle richiamate per il recente passato. Colpisce le banche e i loro azionisti, piccoli e grandi (fra cui le Fondazioni del welfare sussidiario). Andrà a ridurre i dividendi pre-annunciati per il 2023, e quindi – nell’immediato – affonda le quotazioni di Borsa. Penalizza sicuramente la capacità di generazione interna di risorse per l’innovazione e la crescita e l’appetibilità per futuri aumenti di capitale. Indebolisce le basi patrimoniali dei gruppi costantemente sorvegliati dalla vigilanza Bce. Peraltro era stata quest’ultima – negli anni della pandemia – a “tagliare” imperativamente per tutte le banche dell’Eurozona la quota di utili destinabile a dividendi per gli azionisti. Ed è stata Francoforte – con i suoi rialzi dei tassi in funzione anti-inflazione, ma non senza effetti recessivi su Pil e occupazione – a creare le condizioni oggettive per un forte rilancio della redditività bancaria.

Il provvedimento di palazzo Chigi in quanto tale non è stato coordinato con l’Ue: che però sta rialzando la guardia verso la politica finanziaria del nuovo Governo italiano (anzitutto in chiave Pnrr). In sé il passo italiano non dovrebbe quindi risultare sgradito a Bruxelles. È una mossa che va a inserirsi d’altronde in un ginepraio internazionale di “windfall tax” contro questo o quel settore (anzitutto quello energetico). Un labirinto di tassazioni straordinarie ad hoc, con un denominatore comune: l’esistenza incontestabile e visibile di “extra-profitti” (spesso enormi) creati dalla crisi geopolitica e quindi principalmente dalla spirale inflazione/rialzo dei tassi. Non c’è dubbio che la violenta stretta monetaria condotta dalla Bce (fra le perplessità crescenti del Governo italiano e di altri) abbia ridato fiato ai ricavi delle banche (tassi attivi sui crediti alle imprese) dopo anni di “tassi zero”. Ed è vero che il sistema bancario (non solo in Italia) ha subito trasferito i rialzi sulle rate dei mutui contratti dalle famiglie, senza invece per ora ripristinare ai risparmiatori una remunerazione sui conti correnti (lo ha fatto invece il Governo con diverse emissioni di Btp speciali).

Di fronte alla resistenza delle banche verso i primi tentativi di “moral suasion”, il Governo ha deciso di giocare la carta della tassazione straordinaria. L’obiettivo dichiarato è generare extra-risorse per le finanze pubbliche verso una manovra 2024 che si annuncia oltremodo delicata: non solo perché tutte le emergenze da crisi geopolitica sono tuttora attive, ma anche perché il prossimo anno (elettorale in Europa) porterà con sé la ridefinizione dei nuovi parametri di stabilità Ue.

La politica ha fatto rotolare i suoi dadi (non da ultimo quello del rifinanziamento del superbonus edilizio, con tutti i suoi volani e le sue insidie). La politica è alla prova: forse la prima vera dopo le elezioni 2022.

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