Parlando di sanità viene naturale mettere l’accento sul numero di posti letto ospedalieri e su quelli del personale. È giusto, ma i numeri da soli dicono poco, se non si cerca di rispondere a due domande: i posti letto e il personale bastano rispetto ai bisogni (ovvero: quali bisogni debbono trovare risposta)? Quali scenari ci attendiamo nei prossimi anni?

È evidente a tutti che i bisogni sono cambiati. Da una parte si è trasformata la funzione dell’ospedale per acuti, con meno posti letto, degenze più brevi e snelle, spostamento verso setting ambulatoriali di interventi sanitari prima a ricovero; in breve: con meno posti letto si fanno più cose. Dall’altra c’è il peso della cronicità, in forte crescita, che va tolta dall’ospedale e richiede una presa in carico nella prossimità al luogo dove si vive, poiché esprime bisogni dilatati ma spesso a bassa intensità e criticità.

I numeri e le prospettive, però, non intercettano la questione fondamentale che dovrebbe determinare la riorganizzazione del sistema sanitario, e cioè il tema del senso e dello scopo di quello che si fa, che dovrebbe essere il determinante per guidare l’organizzazione.

L’Hospitale nasceva come luogo di ospitalità e accoglienza del pauper infirmus, mosso dalla carità e aperto a una dimensione totale del Bisogno dell’uomo malato, rappresentato ma non esaurito nella somma dei bisogni. Il nostro sistema sanitario sa ancora prendere sul serio il bisogno di salute e di salvezza di una persona malata?

La risposta non sta nella sua forma, che deve evolversi per essere sempre più adeguata ed efficace, rimanendo sostenibile, ma tenendo presente che la cura non è riconducibile ad una somma di prestazioni, per quanto di qualità: non a caso lo scontento che i pazienti segnalano è inversamente proporzionale all’incremento dell’efficienza e dell’efficacia che il sistema sanitario e la medicina rispettivamente continuano a guadagnare.

Fa certamente parte della risposta, invece, la questione del personale, ed in particolare di medici e infermieri. Medici: in numero assoluto, il blocco delle assunzioni e il personale non reintegrato di questi ultimi anni sono un dato di fatto, ma la distribuzione è eterogena, con carenze in alcune specialità (significative l’emergenza-urgenza, i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta); c’è una grande fetta di medici prossimi al pensionamento e un’eterogeneità regionale che accentua alcuni problemi nazionali in certe aree, giusto per citare i problemi più gettonati. Infermieri: qui la popolazione è più giovane e i numeri sono destinati a rimanere stabili, ma sono pochi, e sono pochi in rapporto ai medici.

Ma in aggiunta ai numeri, negli ultimi due anni stiamo vedendo un fenomeno nuovo che ha le sue radici molto più lontano ma che il Covid ha messo in luce con un segnale potente che rappresenta una grande opportunità di rilancio delle nostre professioni e che non possiamo permetterci di sprecare.

C’è una crisi profonda nei professionisti della sanità, che migrano in uscita dal Servizio sanitario nazionale, soprattutto per lasciare un lavoro che non soddisfa, non compie, non realizza. Molti smettono di fare il medico o l’infermiere. E chi rimane in ambiti clinici, cerca aree felici altrove, che non trova: alla delusione si accompagna il rimpianto e il senso di fallimento. È un disagio che ha molti motivi: alcuni propri della nostra realtà sanitaria ed altri che attengono alla più generale crisi del lavoro, cui anche il nostro lavoro prende parte.

Antica come la malattia è la sua durezza, che non si regge. Dal razionalismo al positivismo si è compiuta una parabola che ha creduto che la scienza potesse rendere inutile la carità, occupandosi solo del corpo malato come di una macchina guasta da aggiustare; per contrappasso si è dilatata oggi la richiesta di una relazione a cui non sappiamo più rispondere, per una insufficienza culturale globalizzata cui anche il nostro Paese, se pur con un certo ritardo cronologico legato anche alle sue radici culturali, partecipa.

I malati sono sfiduciati. La ricerca di autonomia è unilaterale e carica di pretese, alimentando un contenzioso verso il quale la classe medica cade nell’errore di esercitare una medicina solo difensiva. Non è stato così anche con il Covid? I medici e infermieri osannati all’inizio sono stati rapidamente criticati, divenendo oggetto di cause di risarcimento e accuse di colpa professionale.

La quantità di adempimenti amministrativi e burocratici collegati alle prestazioni sanitarie riempie il tempo sottraendolo alla cura e svilendo la professione, rendendola impiegatizia, con il decisivo contributo di chi irrigidisce normativamente la complessità del sistema trasformandolo in un sistema complicato e asfittico.

È un’insufficienza esistenziale, una povertà dell’io, un problema che non può più essere affrontato credendo che solo una migliore organizzazione, qualche turno in meno o qualche soldo in più ci potranno salvare.

Nel 1926 Malraux scriveva: “Non c’è ideale al quale sacrificarci perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo cosa sia la verità”. Oggi le implicazioni sono concrete.

Occorre rifondare la sanità, ritrovare uno slancio originale che vuol dire saper tornare all’origine. È un lavoro culturale urgente, una risposta seria ad una domanda di senso che questo disagio esprime. Ma questo nuovo inizio può accadere a condizione di non essere da soli, e anzi solo dentro una compagnia umana capace di andare al fondo della radice professionale del prendersi cura dell’altro, a ciò che l’ha generata: riscoprendola nelle modalità che oggi la realtà ci chiede e in forza di questo traducendola in risposte concrete, quindi anche organizzative.

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