Come fosse un fiume carsico, il tema dell’immigrazione torna periodicamente ad occupare le prime pagine dei giornali. Si tratta di un’emergenza che caratterizza il dibattito politico da più di un ventennio e il confronto si arena sempre attorno alla questione degli sbarchi e dell’accoglienza. Eppure, qualora si volesse tentare un paradosso, si scoprirebbe che la discussione evita accuratamente di occuparsi del problema principale. Il paradosso potrebbe essere questo: ammettiamo che i migranti desiderosi di entrare nel nostro Paese fossero soltanto due, o comunque un numero talmente piccolo da non destare problemi né sullo sbarco né sulla loro accoglienza, questi due che società troverebbero? In che tipo di cultura si potrebbero integrare? In quale visione del mondo potrebbero essere inclusi?
Fin dalle scuole elementari si studia che, ad un certo punto, l’Impero Romano dovette far fronte al problema delle pressioni dei popoli dell’est sul confine orientale. Roma, in tempo di prosperità, si adoperò nel respingere quelle pressioni, poi – travolta da una debolezza interna sempre più crescente – iniziò a stipulare accordi e patti che portarono uomini come il vandalo Stilicone ad occupare posti di potere analoghi a quelli di un moderno presidente del Consiglio italiano.
Con la progressiva disgregazione dell’Impero Romano d’Occidente furono i generali goti a prendere in mano le redini del potere politico e si posero seriamente la questione dell’integrazione tra la cultura romana e la cultura gota. Teodorico, di fronte ad una penisola ormai economicamente in ginocchio e alla percezione della sfida che aveva davanti a sé, guardò con fiducia al cristianesimo come a quella forza capace di andare oltre le barriere dei popoli e delle genti, e – da ariano quale era – nominò due cattolici, prima Boezio e poi Cassiodoro, ai vertici massimi dello Stato.
Il loro compito era quello di non rimpiangere il passato, di non sostare al capezzale di un mondo morente, ma di essere levatrici di una storia nascente. Egli intuiva che un’integrazione e un’inclusione fra i popoli sarebbe stata possibile solo se qualcuno fosse stato capace di parlare a quell’umano che era più grande di ogni pretesa identitaria e culturale. Si poteva trovare una risposta vera a temi come quelli dei matrimoni, delle successioni testamentarie e delle transazioni tra privati solo se le misure emanate fossero state capaci di parlare una lingua nuova, non frutto di un compromesso, ma di una risposta più profonda e più vera, una risposta che in ogni provvedimento ricordasse agli interlocutori la promessa di bene e di vita che aveva introdotto Cristo nel mondo.
Si può senz’altro dire, senza timore di essere smentiti, che fu il cristianesimo a forgiare una civiltà che, da allora, si sarebbe messa in cammino riconoscendo il valore della vita umana, del lavoro e dell’unità. Nacquero gli ospedali per curare la vita, le abbazie per insegnare a tutti il lavoro e gli atti di penitenza per praticare il perdono reciproco e risanare l’unità.
Questi elementi non sorsero come documentazione di un credo irrazionale che aveva preso ad oscurare la luce dell’Impero, ma come atto pubblico di una mentalità nuova, una mentalità dove non c’erano più distinzioni tra romani e goti, ma solo la prospettiva di un compito: quello di costruire insieme la città di Dio nella terra degli uomini.
Oggi quel sogno si è infranto tra i crinali della storia, lungo i sentieri dell’egoismo e della riduzione della fede a sovrastruttura culturale di un potere politico cieco e cinico. Restano certamente tracce di quell’antica avventura, ma nessuna di esse connota più la società in cui ci troviamo a vivere. E quindi, un migrante, quando arriva sul nostro suolo, che cosa trova ad accoglierlo? Quale idea di società, quale narrazione, quale ideale, gli viene offerto?
In un’epoca di pensiero debole, è diventata debole anche la nostra capacità di parlare al cuore dell’uomo. Restano solo i soldi, il successo, le luci e i lustrini di un Occidente in declino ad ammaliare gli occhi di chi giunge sulle nostre spiagge. Una ricchezza ostentata da cui chi arriva si è sentito per troppo tempo escluso, una ricchezza da sempre raccontata come la soluzione di tutti i problemi. La Gran Bretagna multiculturale si trova lacerata in profondità al pari della Francia o del Belgio, terre in cui le ondate migratorie hanno già sviluppato la seconda o la terza generazione di cittadini. Il mito della libertà, della ragione, dei diritti è troppo piccino per l’animo umano che cerca appartenenze forti, risposte vere e scelte coraggiose.
La balcanizzazione politica che seguì le invasioni del V secolo è oggi una balcanizzazione sociale che già divide profondamente gli Stati del continente. Non c’è oggi un’energia morale capace di portare a sintesi queste spinte che rappresentano – di fatto – un fenomeno storico difficilmente controvertibile. Ma non c’è neppure un’esperienza cristiana viva che veda in tutto questo una possibilità, un segno, una nuova chiamata: Cristo talvolta sembra vicino ai sentimenti e alle idee, ma lontano dal cuore.
Così anche gli appelli del Papa non si trasformano in presa d’atto, in una nuova consapevolezza, ma solo nell’ennesimo materiale utile per la contesa politica. E intanto la gente che ci riesce sbarca e s’inserisce sul continente senza che nessuno davvero la incontri, senza che ci sia un Cassiodoro ad ascoltarla. Accolta da tante parole che, in fondo, non sanno dire nulla.
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