Il grido dell’abaya

La laïcité francese nasce come separazione completa di Chiesa e Stato. Ma forse a Parigi sono andati troppo oltre. La prova? Portofranco a Milano

Poveri studenti. In Italia arrivammo a sperimentare i banchi a rotelle. Ma almeno avevamo due attenuanti: una, che c’era la pandemia e, due, che c’era ministra la Azzolina. Adesso in Francia si comincia a sperimentare, in una serie di istituti appositamente selezionati, l’uniforme. E qui non ci sono attenuanti, perché la decisione di monsieur le ministre Gabriel Attal non è un’improvvisazione, ma, scientemente, la riaffermazione della dottrina della laïcité, eretta a principio supremo della nazione e specialmente della scuola (con la rivoluzione del 1789, poi con apposita legge del 1905 e successive). Lo stesso principio per cui monsieur le ministre Attal per l’inizio di quest’anno scolastico ha proibito alle ragazze di indossare l’abaya, e ai ragazzi il qamis, vale a dire l’indumento di tessuto leggero lungo fino ai piedi e a maniche lunghe in uso presso le popolazioni mussulmane del Nordafrica e del Medio Oriente. Dice che sono simboli religiosi – come la kippah ebraica, il velo islamico e le (grandi, sic!) croci, vietati con legge del 2004 – e quindi divisivi e contrari alla laicità dello Stato e alla neutralità dell’insegnamento pubblico. Associazioni musulmane hanno obiettato che trattasi di tradizione popolare, non di abito religioso, ma il Consiglio di Stato ha dato ragione al ministro. Il quale ha ribadito che “la scuola è il santuario (sic!) della laicità”. Difficile immaginare un santuario delle non-religioni. Se non come tempio massonico.

Comunque, per sciogliere il dubbio se il tunicone lungo sia o no un simbolo religioso, come il velo, conviene consultare… no, non Wikipedia, che fa la teoria, ma Amazon, che fa la pratica (del mercato). Su Amazon potete scegliere  più di mille modelli di abaya e altrettanti di qamis. Ce n’è per tutte le tasche. Il più economico è il modello Sunnik, euro 16,60, proposte nelle tinte nero, oppure marina militare, “fresco, confortevole, morbido, adatto alla pelle, ideale per l’uso quotidiano”. Il più caro, euro 315,21, è il Vsadsan, di marca statunitense. “Perfetto per casual, lounge, casa, shopping, feste, serate, ramadan, chiesa (sic!, neanche moschea: proprio chiesa) e altre occasioni. Lavabile in lavatrice. Non candeggiare”.

Anche i grandi marchi internazionali della moda lanciano sempre nuovi modelli di questa che si chiama modest fashion, ma può anche competere in eleganza e prezzo con gli abiti ampi occidentali. Quest’estate alle adolescenti musulmane francesi veniva proposta “l’abaya color corallo perfetta per l’estate”, del tutto simile a vestiti leggeri lunghi e comodi occidentali. Anche Dolce e Gabbana hanno creato una linea di abaya, chiamata “L’alba di una nuova eleganza”.

Amazon, ma anche l’intero mondo della moda, propone l’abaya non come prodotto di nicchia, tipo negozio di articoli religiosi, ma come prodotto fashion in piena regola. A quanto pare, in larghezza di vedute Bezos batte Macron 6-0, 6-0. Come a dire: potenza del mercato batte potere ideologico.

Ma anche Fantozzi batte Macron. Il povero Paolo Villaggio, negli ultimi scampoli di vita, indossava – anche in tv – un ampio qamis, a volte sotto la giacca, a volte no. Gli era venuta una pancia esagerata e per questo – non so se per altri problemi di salute – non poteva più indossare dei normali pantaloni. È sicuro che Villaggio non era né un ayatollah né un imam.

Ma perché i francesi se la prendono tanto anche con un abito che è tradizionale, ma a differenza del velo (hijab) non ha nessun significato o riferimento religioso? Non proprio tutti i francesi, ma i governativi sì, le destre sì, i socialisti sì con qualche eccezione; quasi solo l’estrema sinistra di Mélenchon è contraria, non si capisce se per vera convinzione o per necessità di schieramento.

Una spiegazione, sul piano culturale, potrebbe essere la seguente. Il principio di laicità nasce in Europa, insieme all’idea di tolleranza, in seno all’illuminismo liberale: esso prevede la fine dell’intreccio fra Stato e Chiesa tipico dei vecchi regimi, e la tolleranza delle idee e dei culti.

La versione francese della laicità tende a interpretare la (giusta) separazione tra Stato e Chiesa come necessità di evacuare dallo spazio pubblico ogni riconoscibilità dell’appartenenza religiosa. Di fatto, dalla rivoluzione del 1789 in poi la laicità è stata principalmente intesa in senso anticattolico. Sul finire del secolo scorso, quando fu evidente che socialmente il cattolicesimo contava come il due di picche quando la briscola è quadri, la laicità prese una piega decisamente anti-islamica. Nel frattempo la teoria della laicità viene via via aggiornata prendendo la fisionomia di dottrina “anti-comunitarista”, cioè contraria alla manifestazione pubblica di qualsivoglia appartenenza a una comunità.

Emergono qui tutti i limiti della concezione individualistica e statalistica entro cui è nato il concetto moderno di tolleranza. Per essa l’uomo è individuo, l’appartenenza non è un dato originario ma un contratto, lo Stato appunto; sorgente dei diritti è lo Stato, e la tolleranza è una sua concessione. L’inclusione è pura assimilazione, non incontro.

In questo contesto l’alterità, la diversità, le comunità sono un virus che contamina lo spazio pubblico e che pertanto deve essere escluso, cioè occultato, non essere riconosciuto dagli altri. Bisogna essere in uniforme, uguali agli uguali.

Non è un caso che alcuni tra i più bei nomi del pensiero moderno e contemporaneo siano critici dell’anti-comunitarismo. Molti appartengono al filone del socialismo utopistico, altri al cattolicesimo, come Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Più recentemente Michael Sandel in Il liberalismo e i limiti della giustizia accusa il contrattualismo anti-comunitarista di basarsi su un’idea di individuo come persona “vuota”, soggetto disincarnato. Per Alasdair MacIntyre (cf. Dopo la virtù) siamo all’ultimo esito del moderno progetto dell’illuminismo di costruire un’etica dei principi, universalistica e astratta, del tutto indipendente dalla tradizione delle virtù. Secondo Charles Taylor (intervenuto al Meeting di Rimini dello scorso anno) è fondamentale il riconoscimento di diritti speciali anche alle comunità minoritarie. Lo Stato deve intervenire perché le comunità non si spengano (cfr. Le radici dell’io).

C’è ampia materia per approfondire, volendo. Validi argomenti contro l’ideologia francese imposta alla scuola. Qui, più di tante parole, vale un’immagine che mi è rimasta impressa, come un’icona dell’abbraccio fra libertà. Nella sede di Portofranco di Milano (centro di aiuto allo studio con centinaia di iscritti) c’è anche un piccolo spazio con macchinette del caffè e tavolini, tipo bar. In una caldi pomeriggio di fine anno scolastico quattro ragazze di 16-17 anni chiacchierano amichevolmente. Due indossano l’abaya e il velo, si vedono il viso, le mani e i piedi e basta. Le altre indossano… il minimo sindacale e si vedono braccia, gambe, spalle, decolleté, schiena e ombelico. Più diverse di così. Eppure nemmeno si accorgevano della reciproca vistosa diversità. Una cosa avevano di uguale: il sorriso dolcissimo e innocente come solo una letizia profonda può dipingere su un viso. Le parole da dire sono incontro, accoglienza reciproca, messa in comune della quotidianità ma anche delle domande e dei desideri. Amicizia. Cose possibili se si sente su di sé uno sguardo – a cominciare dagli adulti – che dice “tu vali”, “tu sei importante”.

Sulla stampa francese, fra le tante ovvietà, ho trovato una perla rara. Ha scritto Jean-François Bouthors, giornalista ed editore, membro dell’Associazione per la promozione dei principi della democrazia umanistica: “L’abaya non è in realtà che il grido di un bisogno d’affermazione che chiede risposte più ampie, e non solo autoritarie, della sola affermazione della laicità”.

A cercar bene, si trova sempre qualcosa di buono.

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