Il lavoro, che aveva dato senso alla vita delle vecchie generazioni, non ha più lo stesso significato per le nuove. Fenomeni come “burnout” (esaurimento), “yolo” (you only live once), “quiet quitting” (difesa dal lavoro facendo lo stretto necessario), mettono in luce l’esigenza di non sentirsi una “risorsa umana”, ingranaggio della produttività, ma una persona nella sua totalità.

Il lavoro è la persona che agisce, che si esprime, che cambia sé e la realtà intorno. Per questo il nostro rapporto con l’attività professionale, e con qualunque lavoro in senso lato, è la partita decisiva che riguarda la dignità degli esseri umani. Ed è per questo che, nonostante l’Istat rilevi una crescita dell’occupazione (a giugno +385mila unità, l’1,7% in più rispetto a un anno fa), quella del lavoro rimane la principale emergenza del Paese. In Italia i lavori poveri e precari hanno ancora percentuali tra le più elevate nei Paesi europei. E, quel che è peggio, il problema coinvolge in gran parte i giovani. La difficoltà a inserirsi in un percorso professionale, per un giovane significa l’impossibilità a realizzarsi e ad affrontare la vita con speranza.

Mentre il tasso di disoccupazione è sceso al 7,4%, per la fascia tra i 15 e i 24 anni sfiora il 22%. I Neet, giovani che non studiano e non lavorano, sono oltre 1 milione e 700 mila, in calo, ma molto sopra la media europea, peggio di noi c’è solo la Romania. Circa i due terzi dei giovani ha un contratto a tempo determinato, un record fra i Oaesi sviluppati (dietro di noi ci solo Spagna e Slovenia).

Un recente studio della Fondazione per la Sussidiarietà segnala che mentre il tasso di occupazione generale è arrivato al 60% circa, tra i giovani laureati si ferma al 53,6%. Per la maggior parte dei giovani la crisi del lavoro significa assenza di prospettive, mentre solo per pochi privilegiati è una vera occasione. Anziché strumento di emancipazione e uguaglianza, il lavoro sta aumentando le disuguaglianze anche tra i giovani.

La vita professionale – come bene documenta l’ultimo numero della rivista Nuova Atlantide – sta anche subendo una trasformazione culturale. Studi recenti mostrano che, per un numero crescente di giovani all’inizio della carriera, il criterio principale per accettare un impiego non è più lo stipendio, ma la ricerca di un sano equilibrio tra mansioni e vita personale e sociale e di un percorso di crescita professionale. Il disagio di molti giovani consiste nel superare la percezione del lavoro come mero obbligo “funzionale” alla sopravvivenza e nel cercare di farne un ambito di crescita, apprendimento, espressione di se stessi, appartenenza a una comunità. Ma perché questo sforzo è così arduo da spingere tra il 5% e l’8% dei giovani laureati a emigrare?

Certo, nel difficile momento di transizione che sta attraversando, il nostro Paese è avaro di occasioni adeguate per i giovani. Ma c’è anche un fattore culturale che va considerato: la crescita dell’individualismo e la perdita del senso della collettività, rende l’energia e la volontà, tipiche della giovinezza, armi spuntate.

Anche il pensiero economico deve cambiare. Ai nostri giovani dovremmo sapere lasciare in eredità una terzia via allo sviluppo, che superi sia quella neo-liberista, in cui ciò che interessa sono il Pil, gli utili e i dividendi, e dove il lavoro e la sua qualità vengono in subordine; sia quella statalista e assistenzialista, che non affronta realmente la necessità di tutti di avere un’occupazione.

In tutti i casi, il bisogno di mantenersi non può essere sottoposto al ricatto del mercato, e una terza via allo sviluppo deve comprendere obiettivi di piena e dignitosa occupazione.

La dignità del lavoro, espressione del desiderio di trasformare e rendere migliore la realtà a beneficio di tutti, e di farlo con un giusto salario in condizioni che non soffochino le altre dimensioni della vita, è la principale eredità che dobbiamo lasciare ai nostri giovani.

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