Quest’estate il mondo occidentale è stato diviso. Non parlo di politica, ideologia o cultura. Sto parlando del film Barbie di Greta Gerwig, che ha già incassato 1,24 miliardi di euro in tutto il mondo. È il film che ha incassato di più nella storia della Warner. Il mondo si divide tra chi lo ha visto e chi non lo ha visto. Tra chi l’ha visto ed è uscito dal cinema gravemente colpito da un attacco di iperglicemia, e chi invece se l’è goduto.
Il momento forse più interessante del film è un dialogo tra Barbie e Ken, il bambolotto che accompagna sempre la bambola bionda. “Non so chi sono senza di te”, grida Ken nella scena, rivolgendosi alla sua compagna. E sembra una dichiarazione d’amore, di sana dipendenza, un “io sono in te”. Ma in realtà Greta Gerwig sta denunciando nel dialogo quell’insicurezza e quella mancanza di maturità così frequenti nei rapporti personali dall’inizio del XXI secolo. Ken è stato per tutta la vita l’appendice di Barbie, ha pensato attraverso la testa di Barbie, ha sentito ciò che lei sentiva, non ha vissuto la propria vita. Barbie risponde: “Tu sei Ken”. E il bambolotto scende entusiasta da uno scivolo dopo aver scoperto che dietro il suo nome c’era un io concreto, reale. Il dolcissimo film non spiega come emerga questo io. È un film di bambole.
Tuttavia, offre l’opportunità di individuare quella dissonanza nella conoscenza che spiega molti fenomeni del XXI secolo: non sappiamo chi siamo, non sappiamo dire io, non ci fidiamo della nostra ragione e della nostra esperienza, non ci fidiamo della scienza (possiamo persino rifiutare i vaccini e sostenere che la terra è piatta), finiamo per cercare un “chirurgo di ferro” per uscire dalla confusione, arriviamo a mettere in discussione il gioco di pesi e contrappesi proprio della democrazia rappresentativa. È un gioco basato sul rispetto del percorso di ciascuno, troppo fragile quando si tratta di distinguere tra verità e menzogna. La realtà è stata sequestrata dalla post-verità, che è ormai una realtà universale, e abbiamo bisogno di qualcuno che ci faccia uscire dal labirinto, perché abbiamo perso la capacità di distinguere. Ed è per questo che siamo tentati di mettere da parte il rischio della libertà per prendere, velocemente, la rappresentanza del “vero popolo” e la difesa dei “veri valori”.
È una vecchia storia. È la storia del dubbio moderno: non possiamo fidarci dei nostri sensi, della nostra ragione, della nostra esperienza, dei nostri sentimenti, possiamo solo fidarci di ciò che siamo in grado di fare, possiamo accedere alla realtà solo attraverso la mediazione di chi ne ha compreso i segreti.
Però qui c’è Ken, che scivola sullo scivolo, eccitato perché ha scoperto il suo io, perché gli si è fatto evidente non a Barbiland ma nel “mondo reale”. Dietro il suo nome c’è un io. Ragione e sentimento per lui hanno funzionato, ha smesso di essere un bambolotto alienato ed è diventato un ragazzo biondo con una propria capacità di giudizio.
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