Una recente ricerca realizzata nell’ambulatorio ARCOVID (Ambulatorio Rivalutazione Covid) dell’Ospedale Universitario Luigi Sacco di Milano sta offrendo elementi importanti sulle conseguenze a lungo termine dell’infezione da Sars-Cov-2. Rappresenta soprattutto un buon esempio di un passaggio epocale che la sanità è chiamata ad affrontare: quello di un sistema che da ospedalocentrico deve farsi sempre più e sempre meglio carico dei pazienti cronici.

L’insieme di sindromi chiamato long-Covid che spesso è seguito alla condizione acuta dell’infezione, è stato codificato nell’ottobre 2021 dall’OMS.

Sebbene siano staterealizzate diverse ricerche, la maggior parte dei meccanismi specifici coinvolti in questo fenomeno rimane sconosciuta e continua a incidere profondamente sulla qualità della vita di un numero di persone che Nature ha stimato in 65 milioni in tutto il mondo.

Il team del Sacco ha sottoposto a indagini circa 2000 pazienti ospedalizzati e non ospedalizzati di età superiore ai 18 anni con diagnosi Covid-19 confermata. Lo studio clinico e immunologico longitudinale, approvato dal comitato etico interaziendale competente, è stato finalizzato all’individuazione di macrosintomi clinicamente rilevanti (MS) del long-Covid e all’analisi delle concomitanze e delle correlazioni dei suoi diversi sintomi, al fine di identificarne i fattori predittivi sui quali poter eventualmente agire con finalità preventiva.

I pazienti sono stati sottoposti a visita medica e valutati con questionari sui sintomi in corso o in risoluzione e sul loro impatto sulla qualità della vita. Sono stati esaminati undici sintomi: palpitazioni, amnesia, cefalea, ansia/panico, insonnia, perdita dell’olfatto, perdita del gusto, dispnea, astenia, mialgia e telogen effluvium (perdita transitoria e massiva di capelli). Il follow-up è proseguito con l’invio di questionari via e-mail ogni 3 mesi per monitorare i sintomi e la qualità di vita correlata alla salute.

La selezione ha identificato tre grandi coorti (>1.000 pazienti), limitate ai pazienti ospedalizzati che ha permesso di analizzare l’impatto del cambiamento della popolazione colpita (pazienti più anziani e più gravi nella seconda ondata) e degli approcci terapeutici utilizzati durante la fase acuta (steroidi ed eparina a basso peso vs antiretrovirali e idrossiclorochina) nella sindrome long-Covid. Nonostante i limiti dello studio (l’analisi ha riguardato solo i pazienti affetti da Covid-19 in due ondate successive, in un solo ospedale e i sintomi sono stati registrati come assenti/presenti senza le scale di gravità e senza osservazioni di lungo periodo) le conclusioni sono state interessanti. Si è avuta innanzitutto la conferma che il Covid-19 può divenire malattia cronica: un anno dopo la fase acuta da infezione, la persistenza dei sintomi variava dal 12% (insonnia) al 28% (affaticamento/debolezza) della popolazione afferente.

Secondariamente si è osservato l’impatto dell’esperienza clinica acquisita nelle diverse fasi della malattia: trattamenti nella fase acuta sono cambiati durante le ondate, influenzando non solo l’andamento della patologia, ma anche l’incidenza dei sintomi a lungo termine nel long-Covid. In particolare, l’uso di terapie basate sull’idrossiclorochina è risultata predittiva di una maggior prevalenza di long-Covid.

In terzo luogo lo studio ha confermato alcuni fattori di rischio ma ha anche ridotto l’importanza di altri e ha rivelato novità inaspettate. Il sesso maschile sembra essere meno interessato dal long-Covid in entrambe le ondate, mentre l’età non sembra influire; il fatto che la patologia si sia manifestata in forma lieve sembra aver preservato dal long-Covid solo nella prima ondata. I malati di diabete sembrano aver sofferto meno di long-Covid, ma ciò può essere dovuto all’alta mortalità di chi ha avuto tale comorbità durante la fase acuta. Piuttosto rilevante tra le comorbità è l’associazione con malattie autoimmuni.

Sappiamo quindi adesso che alcune malattie acute devastanti e fulminee come il Covid-19 che hanno comportato milioni di morti e uno sconvolgimento della vita collettiva tendono a lasciare pesanti strascichi in termini di malattie croniche. Se è vero che si continua a morire di malattie cardiologiche e oncologiche, l’aumento della speranza di vita fa sì che siano in fortissimo aumento le malattie croniche che possono accompagnare le persone per decine di anni e rendere estremamente difficoltosa la vita di famiglie e comunità. Di fronte a questi cambiamenti bisogna ammettere che non si è ancora adeguatamente preparati perché il nostro sistema è ospedalocentrico, ruota cioè attorno alle funzioni proprie dell’ospedale ed è legato alle patologie acute o alle fasi acute della malattia. Tale disfunzione non è una novità: il sistema sanitario, i ministri che si sono succeduti, lo denunciano da quasi vent’anni, ma praticamente nulla fino a oggi si è fatto di sostanziale per cambiarne la direzione: manca una integrazione funzionale con gli ambulatori territoriali, le cure domiciliari non decollano a causa della strutturale carenza di medici di famiglia, che sempre più di rado si recano a fare visite domiciliari. Assistiamo (ce lo dicono anche le cronache delle ultime settimane) a un intasamento improprio di pronto soccorso e reparti ospedalieri. E infine chi si rivolge al servizio sanitario privato perché ha urgenza di esami e cure è subissato da costosissime parcelle che incidono sulla popolazione in termini gravi e difficili da affrontare.

Va anche detto che i percorsi terapeutici sul territorio e le case di cura sono già falcidiati dai tagli della spesa pubblica. La Legge delega sulla non autosufficienza, recentemente approvata, grazie al lavoro della Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana presieduta da Monsignor Vincenzo Paglia, va proprio incontro a questa esigenza scaturita dalla crescita delle malattie croniche e all’allungamento della speranza di vita: garantisce una assistenza domiciliare integrale e continuativa che permetterà di svuotare in parte gli ospedali e le RSA e prendersi cura degli oltre un milione e 300mila anziani che oggi vivono da soli.

Quando infine si parla di “difesa della vita” ci si concentra spesso su aspetti certamente importanti come il rifiuto dell’eutanasia ma ci si dimentica che bisogna battersi per una qualità della vita migliore per chi, cronico, ha per fortuna davanti lunghi anni di vita.

L’esempio del long-Covid mette in luce una questione cruciale perché la nostra società nei prossimi anni abbia al centro le persone in modo non retorico.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI