Si chiama “ansia da ripresa” e colpisce, secondo un’indagine condotta da alcuni siti specializzati in collaborazione con l’associazione Di.Te., circa il 40% degli studenti che riprendono la frequenza delle lezioni dopo le vacanze di Natale. Il quadro di riferimento è quello delle scuole superiori e accompagna un altro dato non secondario: circa il 28% dei ragazzi sperimenterebbe a scuola un frequente disagio fisico.
Le ragioni del fenomeno, sempre secondo lo studio rilanciato anche dal ministero dell’Istruzione e del Merito, risiederebbero nella paura della valutazione, paura che potrebbe essere declinata sia come timore di essere al centro dell’attenzione da parte di docenti e compagni, sia come panico che insorge durante le singole prove, orali o scritte che siano. Queste difficoltà, infine, supererebbero il perimetro della scuola per trasformarsi in vere e proprie crisi che colpirebbero il 39% degli studenti lungo il tragitto da e verso casa.
Certamente tutte le ricerche di questo tipo offrono elementi opinabili ed elementi di riflessione: è senz’altro vero che il periodo dopo le vacanze natalizie è per i ragazzi molto delicato, specie nelle scuole dove esso coincide con l’ultimo mese del quadrimestre e – di conseguenza – con una richiesta maggiore di prove utili a determinare la valutazione del primo periodo. Il punto è che quest’aspetto si inserisce in un contesto che, a novembre come a marzo, non è molto diverso e che racconta di una radicata convinzione nei più giovani circa il fatto che il proprio valore non sia un dato a-priori dell’esistenza, ma qualcosa che è assegnato dagli altri con il voto, ma anche con il pettegolezzo o con diversi e molteplici segnali di sfiducia e di stima.
È impressionante come, al tracollo culturale del cristianesimo, sia conseguita un’incertezza esistenziale circa il valore della persona: se l’io non è dentro una storia che lo guarda al di là di quello che fa e che vuole, resta soltanto quello che gli altri pensano di lui; se non esiste un bene che lo abbraccia gratuitamente ancor prima che inizi a fare delle cose (si pensi al valore del battesimo dei bambini), allora resta soltanto il giudizio di coloro che lo circondano. Se un Altro non ci ama prima, tutti – in fondo – possono disporre di noi.
Detto questo, un genitore che si trovi alle prese con una così radicale disistima di sé nei propri figli, che strumenti ha? Dove può guardare? La saggezza della Chiesa ha affermato, fin dai primi secoli, che l’unico educatore è Gesù Cristo. È Lui che Clemente Alessandrino chiamava “il Pedagogo” ed è al modo con cui educa Lui che si può guardare. All’inizio del cristianesimo Egli non si è introdotto nella storia come una dottrina o come un pensiero corretto e pulito, ma è diventato uomo, un fatto preciso – con un volto preciso – che ha iniziato a far compagnia agli altri uomini.
Non si tratta di ribadire qualcosa di già saputo o di poeticamente affascinante, ma di andare alla radice di questa scelta di Dio: diventando uomo, dicevano già gli Apostoli, ha svuotato sé stesso, ha operato quella che in teologia è chiamata kenosis e che, esistenzialmente, si potrebbe rendere con l’espressione “ha perso tutto”. Per abbracciare l’umano, per salvarlo dal giudizio di quello che lo circonda e dalla dittatura delle impressioni, Dio ha perso tutto, si è svuotato di tutto, e ha iniziato semplicemente a fare compagnia all’uomo.
Oggi chi vuole davvero educare deve accettare di perdere: perdere le proprie idee, le proprie conquiste, le proprie convinzioni. E iniziare semplicemente a stare con i ragazzi. È utile, tuttavia, sottolineare un elemento: questo “stare” non è semplicemente un essere amici, un accompagnare in modo neutro l’esistenza dell’altro. Ireneo di Lione diceva che Cristo si era svuotato di tutto per assumere “forma servi”, la forma di un servo. La compagnia di Cristo non è amorale o neutrale, ma è un servizio all’umano: Cristo educa l’uomo servendo l’umano.
Per capire meglio, è utile richiamare il capitolo 26 del libro della Genesi in cui si racconta di un Isacco benedetto dalla Grazia di Dio, diventato ricchissimo, che è allontanato dai Filistei per timore che quella ricchezza si trasformasse in potere e in egemonia sulle altre famiglie. Isacco, dopo una vita piena di grazie, è costretto a compiere il suo primo atto di libertà: andare a ricercare i pozzi scavati dai servi di suo padre e scavarli di nuovo. L’unica cosa che Dio chiede a Isacco è dunque quella di riappropriarsi del cammino fatto da suo padre.
È questa la fatica della vita: riappropriarci della strada fatta da chi ci ha preceduto per costruire, a nostra volta, un pezzo di strada nuova. Servire l’umano, allora, è questo: aiutare gli uomini a rifare tutta la strada che ha portato a certe consapevolezze. L’educatore non è colui che dice ai ragazzi che cosa fare, non è colui che sa come muoversi, ma chi si affianca per condividere la strada e, in questo modo, trasmetterla. Cristo è entrato nel mondo per condividere l’umano in modo tale che ogni uomo imparasse a vivere fino in fondo la propria umanità.
È evidente, a questo punto, che il problema non è del ragazzo che ha ansia da ripresa, ma dell’adulto che – il più delle volte – ha smarrito la strada dell’umano. Solo chi ha perso tutto o è andato vicino a perdere tutto, capisce che cosa voglia dire perdere qualcosa tutti i giorni – il preconcetto, il moralismo, il già saputo – per incontrare il ragazzino di prima che non sta simpatico a nessuno. Solo chi fa una strada per sé ha una strada da condividere con la ragazza di quinta che non vuole più venire a scuola. La questione educativa è centrale oggi perché evidenzia non tanto quello che c’è da fare per rendere i giovani come li abbiamo in testa noi, quanto perché evidenzia il vero dramma del nostro tempo: adulti che si muovono compulsivamente dappertutto, ma senza percorrere alcuna strada. Senza passione per una meta.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI