Sebastiana a 14 anni è orfana, vive sotto un ponte e si nutre di quel che trova nei rifiuti. Un giorno passa un uomo, le sorride, si inginocchia davanti a lei, le bacia i piedi dicendole: “Gesù ti vuole bene”. Siamo a Lima, Perù, un po’ di anni fa. Accade che, tempo dopo, una zia propone Sebastiana come colf a una casa di Memores Domini (laici dedicati a Dio ispirati a don Luigi Giussani). Tra questi Sebastiana riconosce proprio lui, l’uomo del ponte, che la riabbraccia. Lei ritrova il sorriso, e anche la fede che aveva perso. L’uomo del ponte era Andrea Aziani, che morirà prematuramente, e la testimonianza di Sebastiana è agli atti della sua causa di beatificazione.
Qualcuno dei miei amici aveva appreso queste cose da una recensione di Lucio Brunelli sull’Osservatore Romano del libro di Gianni Mereghetti e Gian Corrado Peluso, Andrea Aziani, febbre di vita (stasera viene presentato al Centro Culturale di Milano). Bene. Si è lì, sabato pomeriggio, al Banco di Solidarietà, dove si è appena conclusa la distribuzione dei pacchi alimentari da portare a famiglie bisognose, e quel qualcuno legge a tutti la storia di Sebastiana e di Andrea Aziani. Per aiutarci a capire meglio il senso di quello che, da “volontari”, facciamo. E anche perché un’altra persona che dormiva sotto il ponte, per la più precisione nel sottopassaggio ferroviario del paese, ci si era poco prima presentato chiedendoci cibo.
Il bacio del piede a Sebastiana con “Gesù ti vuole bene” indica la purità ideale più desiderabile. La strada maestra di rapporti umani nuovi. Quanto c’è da imparare! E possiamo: perché ce l’abbiamo tutti il desiderio di essere abbracciati e il bisogno di imparare ad abbracciare. Solo non bisogna lasciarlo corrompere.
Un altro racconta dell’imprenditore che mette a disposizione gratuitamente una volta al mese camion, autista, gasolio e autostrada, e che ai ringraziamenti con gli auguri di Natale risponde: “Sono io che ringrazio per la possibilità che mi date”. Un’altra ancora racconta del rapporto mantenuto nel tempo con una signora cui l’aiuto alimentare non serve più, ma desidera amicizia e condivisione della vita.
Viene sera e non lontano è stata organizzata una cena benefica a favore di Avsi, una Ong che attua centinaia di progetti umanitari in quaranta Paesi del mondo. Il menu è polenta e cassoeula (dirò più avanti del suo valore) e il ricavato è destinato ad azioni per contadini in Kenia, artigiani in Tunisia, famiglie poverissime in Uganda, rifugiati venezuelani in Ecuador, piccoli orfani in India e immigrati in Italia. Opera, quest’ultima, iniziata con i profughi dall’Ucraina dopo l’invasione russa. Il tema della campagna Avsi giustamente guarda all’orizzonte della pace così massacrata in mezzo mondo: “Desideriamo la pace. Diamole i volti, i nostri”. Ma allora… i volti di Andrea e di Sebastiana, del rumeno del sottopasso, dell’imprenditore del camion, della signora che non ha più bisogno del “pacco” ma di umanità. I volti di tutti questi qui, che mangiano la cassoeula decisi a non marcire di individualismo e di indifferenza.
Il volto, in particolare, del ragazzo ucraino Mykola e del prete russo Alexej. Il ragazzo, accolto da una famiglia del posto, è nel gruppo di coetanei che servono a tavola. Il prete è a tavola e viene giustappunto servito dal giovane profugo della nazione invasa. Vengono presentati, i due; si rompe il ghiaccio e si mettono a discorrere. In russo. Va a sapere cosa si sono detti, ma i volti erano più che sereni, lieti. La pace comincia dai piccoli gesti, quelli in cui “possiamo metterci la faccia”, i nostri volti, noi che mediamente non siamo eroi. Può essere povero il gesto ma è grande, se è vero, la Presenza che esso attesta e il cambiamento che testimonia. Un po’ come la cassoeula. Esempio lombardamente preclaro di valorizzazione di tutte le parti “povere” del porcello che si ammazza a novembre: costine, cotenna, pescitt, cioè i piedini, musetto… e poi le verze, che vengon su nell’orto nello stesso tempo e si ammorbidiscono gratis con le gelate dopo San Martino. Il risultato è un capolavoro ammirevole e benefico.
Il più grande ammirevole capolavoro da cui non dobbiamo distogliere gli occhi è la presenza cristiana in Terrasanta. Che per quanto riguarda i cattolici essa è unita nel Patriarcato latino retto dal cardinale Pizzaballa e incardinato sulla cattedrale del Santo Sepolcro (o della Risurrezione), ed ha nella parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza la sua testimonianza in questo tempo forse più drammatica e impressionante.
La missione di cui si sente investita questa piccola realtà – 135 fedeli cattolici su 1017 cristiani di varie confessioni presenti complessivamente nella striscia di Gaza – è “sperimentare la presenza del Signore”, come la definisce il suo parroco, padre Gabriel Romanelli. Come è noto, da quando è scoppiato il conflitto tra Hamas e Israele, come è noto (forse) hanno trovato ogni giorno, nei locali della parrocchia, anche in chiesa, 6-700 palestinesi che hanno perso la casa, e molti sono musulmani. Sotto le bombe, con carenza di tutto, due parrocchiane uccise da cecchini israeliani, continua l’animazione per i ragazzi, l’aiuto a tutti come si può, la cura dei minori disabili, il tempo della preghiera che per le suore è “l’unica arma che abbiamo per difenderci e per illuminare la strada”, e che anche i non cattolici recitano con convinzione. La parrocchia resta il luogo dove “non scende mai il buio della notte”, dicono gli sfollati.
Una lettura convincente del valore di queste esperienze è fornita, ancora una volta, dal Patriarca Pizzaballa. Nella postfazione al libro di Massimo Fusarelli, Francesco d’Assisi, una vita inquieta, prende le mosse dal viaggio di San Francesco in Terrasanta e dal suo incontro con il Sultano. Scrive: “Quel viaggio non ha risolto alcuno dei problemi politici del tempo. Ma ha indicato un metodo che anche oggi è la via maestra per chi vuole costruire contesti di pace, anche qui nel tormentato e conflittuale Medio Oriente: l’incontro”. “Sono sempre più convinto – afferma poi Pizzaballa – che la missione principale della piccola comunità cristiana sia custodire il desiderio di incontro, coltivare la libertà nei confronti di tutti, superare i confini religiosi, etnici e identitari… Non si tratta di cancellare le appartenenze, ma di non renderle fortezze inaccessibili… Per noi l’identità cristiana è una casa ospitale e una porta aperta sul mistero di Dio e dell’uomo. E la nostra piccola comunità cristiana, senza potere e politicamente irrilevante, potrebbe fare la differenza”.
E noi, tra una cassoeula e un gesto gratuito di carità, possiamo essere della partita.
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