La campagna elettorale per le europee di giugno sta entrando nel vivo con sviluppi inattesi. L’annuncio del presidente del Consiglio Ue, il belga Charles Michel, sulla propria intenzione di candidarsi per un seggio a Strasburgo è stato seguito da forti fibrillazioni. È evidente che Michel dovrà ritirarsi in anticipo dall’incarico (lo hanno fatto, ultimamente, due Vicepresidenti della Commissione: Margarethe Vestager, peraltro mancando poi la nomina al vertice della Bei; e Frans Timmermans, candidatosi alle recenti elezioni olandesi).
La mossa di Michel ha provocato fra l’altro una pressione imprevista sulla numero uno della Commissione, Ursula von der Leyen: che – salvo colpi di scena – non dovrebbe candidarsi per il Ppe all’Europarlamento, ma è data in corsa per un secondo mandato a Bruxelles, benché – ancora una volta – alla guida della Commissione debba approdare in teoria un “candidato di punta” proposto dalle diverse forze politiche a tutti i 400 milioni di elettori europei. Non da ultimo: fra luglio e ottobre, la presidenza del Consiglio Ue sarebbe retta sulla carta dal Premier ungherese Viktor Orban, come Presidente semestrale dell’Unione; in una situazione ritenuta di per sé problematica.
È su questo sfondo complesso che ha preso forma l’ipotesi di nominare subito il successore di Michel: prima del voto e comunque con la prospettiva di rimanere poi presidente del Consiglio nel nuovo organigramma quinquennale, che verrà definito la prossima estate dai 27 leader, anche sulla base dei risultati elettorali (tutti gli incarichi dovranno essere ratificati a Strasburgo).
Il “candidato di punta” c’è già, anche se per ora lo ha fatto ufficialmente solo il Financial Times: è Mario Draghi, ex Premier italiano ed ex Presidente della Bce. Ufficiosamente, il suo “grande elettore” sarebbe il Presidente francese Emmanuel Macron, appoggiato finora da un silenzio-assenso di principio da parte del Governo italiano. Per ora non convinto di Draghi “Presidente d’Europa” sarebbe invece il Cancelliere tedesco Olaf Scholz: socialdemocratico (il tecnocrate Draghi invece viene accreditato di simpatie personali liberaldemocratiche) e Premier di un Paese storicamente “dialettico” con la Bce di Draghi.
Nell’attesa che la politica faccia il suo corso e sciolga i nodi all’interno della democrazia istituzionale, val la pena di sottolineare alcuni aspetti di quella che sarebbe una sicura “novità Draghi” su una poltrona ancora giovane nell’architettura Ue e finora poco maturata da due esponenti belgi, inframmezzati da un polacco.
La prima sfida che Draghi si troverebbe ad affrontare sarebbe appunto lo sviluppo della governance reale dell’Europa. Mentre il ruolo della Commissione è più che adulto (è un “Esecutivo” e il suo Presidente è un “Premier”) e l’Europarlamento sta acquisendo ruolo come centro legislativo propulsivo di una “sovranità” continentale, all’Ue manca ancora una figura assimilabile a un “presidente della Repubblica”. Nella tradizione continentale (di democrazie parlamentari, salvo il semipresidenzialismo francese) il “capo dello Stato” è una figura di garanzia costituzionale, ma non priva di ruolo. E in una fase storica senza precedenti, emerge come sempre meno secondaria l’esigenza di un “Mr/Mrs Europa” riconoscibile e autorevole, anche se privo di poteri esecutivi. Non c’è dubbio che – soprattutto verso gli Usa, all’interno di un riemergente perimetro “occidentale” – Draghi sia forse il personaggio con la maggiore capacità di “valore aggiunto” su questo versante.
Un argomento che in questi giorni è sollevato contro la candidatura Draghi è il suo background di banchiere centrale. Ma è un’evidenza per molti versi critica che l’euro rappresenti oggi l’unica indiscutibile “Europa reale”. E il passaggio recente sul ripristino transitorio dei parametri di stabilità finanziaria ha solo confermato quanto il cardine dell’unione monetaria abbia bisogno di essere riancorato e in parte ricostruito. La seconda sfida si profila enorme: ma Draghi è senz’altro fra quelli che – da una posizione votata alla facilitazione e sintesi del confronto – può contribuire ad affrontarla.
La terza ma non certo ultima sfida è quella posta dalla realizzazione del Recovery Plan, cioè dei Pnrr nazionali. Quella elaborata durante la pandemia (su spinta iniziale di Draghi, nel 2020 nel semplice ruolo di prestigioso opinion maker) resta la sola road map condivisa fra tutti i Ventisette. Ha costruito un’infrastruttura finanziaria con forte potenziale di sviluppo – in direzione degli eurobond – e ha già apportato prime correzioni all’originaria strategia NextGenerationEu, all’insegna del realismo e del superamento di molte premesse ideologiche, fonte di crescente conflittualità politico-economica. La crisi geopolitica ha profondamente mutato connotati e prospettive della transizione eco-energetica. La transizione digitale appare intanto estremamente più sfidante nell’avvento dell’Intelligenza artificiale. E l’urgenza di impostare una difesa europea promette di avere impatti importanti sull’industria del Continente e sulle politiche che possono sostenerla e orientarla.
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