È bello il titolo che Pesaro ha scelto per il suo anno come Capitale italiana della cultura: “La natura della cultura”. È un titolo che solleva una questione che tanto spesso viene affrontata in modo retorico o elusivo: che cos’è “cultura”? Da dove scaturisce, a chi è destinata?
Se guardiamo il panorama di oggi, ci troviamo di fronte a un’idea dove prevale la dimensione del “consumo culturale”. La preoccupazione è sempre più rivolta ai numeri che al senso di ciò che si propone. Prevale la proposta di contenuti che le persone vogliono sentirsi dire piuttosto che la ricerca di parole che mettano in discussione lo status quo e stimolino percorsi nuovi in chi ascolta. È un sistema molto autoreferenziale, dove vince chi piace: questo vale trasversalmente, dalla letteratura al pensiero, dall’arte al cinema. La cultura di fatto è un passatempo, spesso destinato a un’élite anagrafica, che produce un’elegante inerzia sociale, con esiti sintetizzabili in questo modo: davanti a una realtà che viene sistematicamente e moralisticamente condannata, ci si salva rifugiandosi nella nicchia di chi la “pensa giusta”. Ci si crogiola di bei ragionamenti, di parole forbite, di libri ben scritti che immancabilmente vanno in una direzione scontata.
Per questo è importante porre la domanda sulla “natura della cultura”. È una domanda che ad esempio aveva posto con molta radicalità in mille contesti un personaggio come Pier Paolo Pasolini: è indimenticabile, ad esempio, un suo video girato su una stradina di Orte, dove dimostrava che le pietre messe da anonimi tanti secoli fa per allestire quel selciato o il muro che lo protegge per lui erano una fatto di cultura né più né meno dei capolavori davanti ai quali tutti restiamo incantati. Senza capire questa equivalenza, diceva Pasolini, si finisce con il fraintendere il valore e il senso di quella che riteniamo cultura “alta”. In questo modo poneva la questione del legame imprescindibile tra cultura e realtà. Un altro intellettuale come Giovanni Testori si muoveva su un uguale lunghezza d’onda quando sosteneva che «la cultura è la forma di tutte le ore». E specificava: «Si potrebbe dire che la cultura è la forma che prende, di tempo in tempo, la coscienza della vita quand’essa giunge alla sua pienezza».
Quale ricaduta ha una visione sulla “natura della cultura” come questa? C’è un’indicazione che si può ricavare dall’esperienza di Pasolini e di Testori: in tutt’e due, specie negli ultimi anni di vita, si era fatta largo una tensione pedagogica. Cioè la necessità di misurare la verità della propria posizione nel rapporto con i giovani, rompendo gli steccati della società intellettuale e stabilendo una relazione reale e non scontata con le nuove generazioni.
Quando si apre una breccia a volte la breccia lascia segni profondi nel tempo. È quanto sta accadendo in questi giorni a Forlì dove un gruppo di “ex giovani” che 40 anni fa vennero in rapporto con Testori: lui non aveva esitato ad affidare loro, neofiti del teatro, un suo testo. Così iniziarono una straordinaria e libera avventura, quella del Teatro dell’Arca. Quel metodo ha lasciato il segno e oggi quegli ex giovani con una settimana di laboratori e lezioni aperte, in un bellissimo spazio di Forlì, la chiesa di San Sebastiano, si cimentano in un passaggio di consegne a una nuova generazioni di ragazzi, perché anche a loro si renda possibile inoltrarsi in altre avventure nel segno di una cultura pienamente implicata con la vita e con le sue grandi domande.
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