Il nuovo ministro della Cultura spagnolo, Ernest Urtasun, ha sostenuto la necessità di “decolonizzare” i musei. Non è un’idea originale. A Bruxelles, il Museo dell’Africa, creato da Leopoldo II, è stato riorganizzato per offrire una versione critica e rivisitata del passato coloniale belga. In Francia, Macron ha promosso un’indagine sui pezzi africani esposti nei musei europei. Molti ritengono che sia giunto il momento di restituire alle colonie il loro passato e di costruire una storia che non sia eurocentrica.

La Spagna, in realtà, non ha un passato coloniale come altri Paesi. Nel XIX secolo, quando l’Europa controllava vaste zone del pianeta, l’Impero della monarchia spagnola era praticamente scomparso. Le “colonie” spagnole nell’America del XVI secolo non erano in realtà colonie come le intendiamo oggi. Nei musei spagnoli non ci sono molti pezzi risalenti a prima della conquista, ma opere d’arte “meticce”, creazioni frutto di una fusione culturale.

In ogni caso la proposta del ministro è interessante perché serve a constatare come “postmoderni” e antimoderni abbiano un rapporto molto simile con il passato.

Gli sforzi per “decolonizzare” la cultura occidentale, la febbre che porta ad abbattere le statue e la cancel culture attribuiscono alla modernità un peccato originale. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte ai crimini commessi dai belgi in Congo, alla barbarie di secoli di schiavitù o allo sfruttamento e alla mancanza di rispetto per le altre culture non occidentali. Ma la cosiddetta “teoria della decolonizzazione” di radice postmoderna è un’altra cosa. È un rapporto con il passato che non parte dal presente. E che, quindi, crea un passato-rifugio, un passato che non è mai esistito.

Nel caso dell’America Latina, questa operazione provoca un rifiuto del moderno in nome di un’Età dell’oro indigena, un’epoca di armonia con la natura, distrutta dall’oppressione degli ideali europei. È necessario, pertanto, recuperare il “buon vivere” indigeno, la sua purezza e autenticità. In realtà, il mondo indigeno, prima dell’arrivo degli spagnoli, era un mondo molto complesso, soggetto anche alla conquista coloniale. Non possiamo parlare di un’unica cultura ma di culture diverse, alcune così lontane dal buon vivere da accettare i sacrifici umani.

I postmoderni fuggono dal moderno perché ripudiano il presente. La stessa cosa accade agli antimoderni. Invocano un mondo perduto, in cui le verità evidenti erano riconosciute in modo semplice, in cui un uomo era un uomo e una donna era una donna, in cui i principi della natura umana erano indiscutibili. Questa forma di evasione è vecchia. Da decenni si parla di quel momento, cinquecento anni fa, forse mille anni fa, in cui l’Europa ha preso la strada sbagliata, in cui la storia ha abbandonato il cammino che rendeva possibile un umanesimo integrale. E, da allora, tutto è stato un declino, una perdita delle radici. Per ancorarsi alla nostalgia di ciò che non è stato, non bisogna andare così lontano. Si può anche cercare rifugio nella Spagna della Transizione quando c’era armonia, nell’Italia del dopoguerra o in cui la maggioranza delle persone “votava bene”.

Postmoderni e antimoderni condividono una fuga dal presente, un rifiuto di ciò che esiste realmente – ciò che sta accadendo ora – per cercare di trovare sicurezza in ciò che non esiste (una proiezione costruita con risentimento). Condividono la mancanza di religiosità che vuole fuggire dal mondo, la mancanza di quell’amore per se stessi che riconosce un’opportunità in ogni circostanza. Per i postmoderni e antimoderni, il Mistero che governa i destini della storia è diventato qualcosa senza carne, qualcosa di astratto.

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