Per educare ci vuole un villaggio, ha detto tempo fa papa Francesco. Perché ci sia un villaggio non bastano individui isolati, ci vogliono luoghi e case dove la gente possa vivere e incontrarsi, accogliendo le persone in difficoltà, bambini, giovani o vecchi che sia. Da una fontana al centro di una città può sorgere acqua viva per tutti.
Il discorso di fine anno del Presidente Mattarella si soffermava verso la fine su “valori che appartengono all’identità stessa dell’Italia” testimoniati da “sognatori che cambiano la realtà“, da chi “lascia il lavoro per dedicarsi a bambini, ragazzi e mamme in grave difficoltà“.
Ci siamo sentiti chiamati in causa: in effetti tredici anni insieme, e all’opera nella nostra casa di accoglienza Fontana vivace qui a Genova, non sono pochi. Alcuni di noi, appunto, hanno lasciato il lavoro o rinunciato ad avanzamenti di carriera per il bene di questo luogo.
Vi stiamo raccontando di tre famiglie normali, amiche dai tempi dell’università, che avevano intrapreso intorno ai 30 anni l’esperienza di accoglienza nella propria casa; bambini in adozione o affido e, in qualche occasione, adulti in difficoltà, madri sole con figli: esperienza, quest’ultima, già vissuta nella propria famiglia d’origine.
Siamo coppie di coniugi diverse per indole, ma ci siamo incontrate sul desiderio di aprirci a esperienze che, nei nostri giovanili progetti, non avremmo subito preso in considerazione. Ci siamo ritrovati a rispondere alla sfida delle circostanze, quali che siano, anche esplorando campi poco conosciuti, aprendo la porta a estranei e rendendoli parte delle nostre famiglie.
Avevamo potuto vedere, dentro l’Associazione Famiglie per l’accoglienza – realtà grande, internazionale, che tuttora ci accompagna – famiglie più anziane di noi che sperimentavano, dentro l’accoglienza, un bene. E poi desideravamo replicare l’esperienza vissuta durante le vacanze in montagna insieme, dove tra adulti e bambini si respirava un’aria nuova, sperimentando, in un luogo pieno di bellezza, dei rapporti di compagnia sincera. Chi non desidera questo, per sé?
Così è nata l’opera “Fontana vivace”: una grande casa accogliente che, innanzitutto, voleva essere luogo stabile, di condivisione quotidiana, dove insegnare ai nostri figli a non aver paura dell’imprevisto e delle sfide della realtà, oltre che naturalmente incrementare le esperienze di accoglienza, sostenendoci in esse.
L’opera comprende le case-famiglia per minori “La Grangia” e “Il Girasole” e due alloggi per l’autonomia destinati a nuclei mamma-bambino. La terza coppia segue da vicino queste piccole famiglie fragili. Dal 2011, sono stati finora accolti 13 minori in casa-famiglia, 8 mamme con in tutto 12 figli minori. Potremmo definirci “famiglie che accolgono famiglie”, condividendo la vita quotidiana in una prossimità abitativa, una realtà unica in Liguria. Insieme ad altre case-famiglia in Italia abbiamo fondato l’associazione Dimore per l’accoglienza, un’amicizia operativa a cui chiedere aiuto e con cui confrontarsi.
Abbiamo dovuto all’inizio affrontare l’ostilità e il sospetto del quartiere: la presenza del disagio, in un quartiere “bene” di Genova, faceva paura. Ora siamo in ottimi rapporti con tutti, e spesso raccontiamo di noi a diverse realtà cittadine.
È stato evidente, tante volte, che un’opera come la nostra non può avere la pretesa di risolvere le cose, di salvare situazioni o persone: abbiamo a che fare con ferite che non si sanano mai (l’abbandono, la violenza, la malattia, ecc.). La casa non è lontana dall’Ospedale pediatrico Gaslini, e ci è stata chiesta in diverse occasioni ospitalità per i familiari di ricoverati, a volte giunti da lontano, senza preavviso. Vedere una faccia amica che ti accoglie fa una grande differenza. Con tanti di loro, totalmente estranei, è nato un legame. È accaduto anche di ospitare una bambina e una ragazza poi decedute per gravi patologie: potevamo solo accompagnarle e sostenerle, aiutare le famiglie a vivere le circostanze senza soffocare dentro di esse. Questi genitori, nel dolore, dicevano però di essere colpiti dal nostro modo di stare insieme, anche nel semplice ritrovarci la sera per il caffè condividendo le vicende della giornata.
Sentiamo questo sguardo su di noi anche da parte dei tanti volontari, soprattutto giovani, che aiutano a studiare i nostri ragazzi (tanti che hanno abitato qui da noi, ora indipendenti continuano a frequentarci per l’amicizia e la familiarità che si è creata).
E poi ci sono i gruppi di giovani famiglie che tornano a usare gli spazi della nostra casa per incontrarsi, in momenti conviviali, o che accogliamo per la formazione sull’affido o l’adozione: di fronte a loro, noi ormai sessantenni, non possiamo vivere stancamente e col dubbio di essere alla fine dell’opera: abbiamo la responsabilità di una testimonianza, non perché “esperti” – impossibile esserlo nel mondo dell’accoglienza! – o per il successo di ciò che possiamo dire e fare. Possiamo mostrare una vita non da eroi, ma pienamente da uomini, in situazioni normali e al tempo stesso straordinarie, perché mai programmate.
Accogliere non è il dare qualcosa, è l’implicazione di tutta la vita. Oggi quella strada intrapresa anni fa con tremore acquista un volto di definitività: abbiamo deciso di acquistare la casa, ancora una volta mettendo insieme con notevole rischio economico, tutto quello che avevamo. Per una convenienza vissuta.
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