Quando entro in classe è tutta presa a scrivere. “Cosa stai facendo?”, le dico. “Sto trascrivendo il tema, poi glielo faccio leggere”. Alla fine della lezione non pensavo già più a quella risposta, invece arriva alla cattedra e, avvicinando il suo telefono al mio, condivide il testo del suo tema. Alla sera, prima di andare a letto, lo leggo con calma. Tutto sul silenzio e il suo ruolo nella vita. Mi ha colpito, però, quel gesto di voler condividere il tema. In questi giorni sto leggendo la nuova e straordinaria enciclica del Papa, intitolata Dilexit nos.
Al numero 12 Papa Francesco scrive: “Occorre affermare che abbiamo un cuore, che il nostro cuore coesiste con gli altri cuori che lo aiutano ad essere un ‘tu’. Non potendo sviluppare con ampiezza questo tema, ci avvarremo del personaggio di un romanzo, lo Stavròghin di Dostoevskij (I demoni, 1873). Romano Guardini lo mostra come l’incarnazione stessa del male, perché la sua caratteristica principale è di non avere cuore: ‘Stavròghin non ha cuore; perciò il suo spirito è freddo e vuoto e il suo corpo s’intossica nella pigrizia e nella sensualità ‘bestiale’. Perciò egli non può incontrare intimamente nessuno e nessuno incontra veramente lui. Poiché solo il cuore crea l’intimità, la vera vicinanza tra due esseri. Solo il cuore sa accogliere e dare una patria. L’intimità è l’atto, la sfera del cuore. Ma Stavròghin è distante. […] Infinitamente lontano anche da sé stesso, poiché interiore a sé l’uomo può esserlo soltanto col cuore, non con lo spirito. Essere interiore a sé con lo spirito non è in potere dell’uomo. Ora, se il cuore non vive, l’uomo rimane estraneo a sé stesso’” (Romano Guardini, Il mondo religioso di Dostojevskij, Brescia 1980, 236).
Colpisce la scelta del Papa di scrivere, proprio adesso, un’enciclica che metta a tema il cuore di Cristo e, perciò, quello dell’uomo. Sembrava ci fossimo abituati a liquidare tra i sentimentalismi il luogo in cui ogni uomo “fa la sua sintesi” (Dilexit nos, 9). Invece, per incontrare l’altro veramente, e per non rimanere estranei a sé stessi, dobbiamo fare i conti con la parte più vera e più intima di noi. Come scrive sempre il Papa: “Invece di cercare soddisfazioni superficiali e di recitare una parte davanti agli altri, la cosa migliore è lasciar emergere domande che contano: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, come valuterò la mia esistenza quando arriverà alla fine, che significato vorrei che avesse tutto ciò che vivo, chi voglio essere davanti agli altri, chi sono davanti a Dio. Queste domande mi portano al mio cuore” (Dilexit nos, 8).
Quella ragazza ha preso sul serio il desiderio di essere incontrata non sui voti, non sul comportamento, ma su ciò che le vibra in cuore, sull’urgenza del silenzio che, tra le altre cose, è il primo alleato del nostro intimo. Forse è anche per questo che c’era bisogno di un testo così, perché anche il gesto di quella ragazza entrasse a far parte di ciò che la Chiesa insegna. Che sia l’occasione per scoprire un “magistero del cuore” che non lasci fuori davvero nessuno e che richiamo a quel mai interrotto dialogo con il Cuore di Cristo? Tutto dipende dalla domanda con cui interroghiamo la realtà, enciclica compresa.
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