All’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, nell’aprile di quest’anno, si è tenuto un interessante evento dal titolo “Spiritualità e Salute: valori costituzionali ed evoluzione nella pastorale della salute”, sul quale vorrei proporre alcune considerazioni, perché il legame tra spiritualità e salute è un tema che raramente viene affrontato nel dibattito in sanità oggi più che mai assorbito dalla percentuale di Pil destinata al Fondo sanitario nazionale (Fsn), dalle liste d’attesa, dal preoccupante fenomeno della diserzione dalla laurea infermieristica, dalla demotivazione degli operatori.
Durante i saluti del sottosegretario di Regione Lombardia, Raffaele Cattaneo, veniva ricordato che la parola “spiritualità” è certamente considerata desueta, tuttavia nulla come la malattia ci ricorda che non siamo solo esseri materiali. La malattia, soprattutto quando è grave, porta con sé un grido inarrestabile che va oltre il semplice bisogno di cura del corpo. Questo bisogno si manifesta nella richiesta di umanizzazione. Anche la sanità ha un’esigenza intrinseca di umanità che non può essere ignorata e che si riflette nella relazione tra medico, operatore sanitario e paziente.
In quel contesto ho affermato che la spiritualità è dentro di noi, con bisogni universali come la malattia. La salute non è obiettivo assoluto del nostro vivere e noi non viviamo per stare sani, ma siamo e vogliamo essere sani per vivere e agire. Queste parole entrano in crisi nel momento della malattia grave e un buon servizio di accompagnamento spirituale, che non può essere semplificato nella sola presenza del cappellano, può favorire il recupero della centralità del senso e del significato del proprio vivere. La pandemia ha mostrato, anche a chi non si era mai avvicinato alla sofferenza, che nelle difficoltà ciò che viene chiesto è un incontro che qualche volta può essere anche silenzioso; è non essere o sentirsi abbandonato, è uno sguardo cercato e che accoglie anche dietro una mascherina, sono mani che si toccano, sono parole condivise.
Tutto questo porta a essere coinvolti; a essere coinvolti nell’attività di tutti i giorni davanti ai nostri malati trovandosi qualche volta a che fare con domande particolarmente spinose come “la centralità del senso e del significato del mio vivere; i miei giorni svaniscono senza più un filo di speranza; l’esperienza della solitudine che appartiene soprattutto (sebbene non esclusivamente) al malato e ai familiari”.
Lo spettro dei colori che costituiscono il soffrire è continuamente mutevole perché, se la gioia è per così dire uguale per tutti, il dolore ha un’identità specifica per ognuno. Ciascuno vive il dolore in un modo proprio, tant’è vero che normalmente il dolore è raramente comunicato e anzi, più sovente, è tenuto dentro di sé. Le persone si vergognano di piangere in pubblico e se talvolta lo fanno, lo fanno in modo rituale o perché indotte da un determinato contesto, ma abitualmente considerano il pianto un’esperienza umana e psicologica strettamente personale.
La scrittrice Susan Sontang sosteneva che la malattia è sempre un simbolo, un segnale che l’uomo riceve e che lancia. Lei partiva dall’esperienza personale di malata di cancro, con una sofferenza non soltanto fisica, sociale, ma carica di ulteriori risonanze possedendo già in sé una dimensione propriamente spirituale.
All’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano un gruppo di professionisti si sta interrogando se la presa in carico della spiritualità del paziente, ma anche dell’operatore, ha uno spazio nel processo di cura e se esiste la possibilità di un’alleanza tra medicina tradizionale e spiritualità. È oramai riconosciuto il ruolo centrale dato alla soggettività dei pazienti durante le cure e nel corso degli ultimi anni si è sviluppata una rinnovata considerazione scientifica verso il ruolo della spiritualità nell’ambito delle cure mediche. In questo ambito è attivo un filone di ricerche che mostra come l’assistenza spirituale sia associata a una migliore qualità generale della vita, al benessere psicosociale e al benessere spirituale e i benefici dell’attenzione in ambito clinico ai bisogni spirituali sono stati indagati dalla letteratura scientifica. Ogni paziente e i suoi familiari sono portatori unici di bisogni, punti di forza, valori e credenze e tenere conto di questi aspetti permette al paziente e ai familiari un maggiore comprensione del percorso di cura e una partecipazione in maniera più positiva alla propria speranza.
Sempre in Istituto una equipe multidisciplinare sta lavorando alla stesura di una check list sull’assistenza spirituale per strutturare e valutare il livello del supporto spirituale in termini di organizzazione, competenze, attività svolta, formazione, ricerca e misurazione di quello che si fa nella prospettiva e nell’ottica del miglioramento continuo. Quindi, una chec klist che ci porterà a stilare una policy dell’istituto su come mettere e tenere insieme spiritualità e cura favorendo il coordinamento degli assistenti spirituali delle diverse confessioni religiose allo scopo di assicurare una tempestiva ed effettiva risposta ai bisogni di assistenza spirituale richiesta dal malato, assicurando incontro e dialogo e momenti di formazione specifica in tema di assistenza spirituale alla persona malata, aiutando l’equipe curante a riconoscere la dimensione spirituale intrinseca di ogni persona come parte integrante utile nei percorsi di cura.
È la mano tesa dei nostri malati, è la domanda di ogni giorno alla nostra professione di medico, infermiere, operatore sanitario o cappellano all’interno di una relazione umana ma con una competenza specialistica che non si improvvisa ma va formata.
La sofferenza umana è sempre fisica, psichica, sociale e spirituale. Non si risponde a quella mano tesa se non si risponde a tutti questi quattro aspetti; a noi la responsabilità di questa risposta portando, nel contempo, la speranza che viviamo.
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