Funerale a Ornans è un’opera dipinta nel 1849 da Gustave Courbet, uno schiaffo all’ufficialità dell’epoca. Un quadro icona per il giorno dei morti
Anche il 2 novembre, giorno dei morti, ha un suo quadro icona. È un’opera che ha le proporzioni di uno schermo cinematografico (lunga quasi 7 metri per 3) ed è conservata al Musée d’Orsay di Parigi. È stata dipinta nel 1849 da Gustave Courbet, un grande artista che in quegli anni stava terremotando la paludata accademia francese, irrompendo con il suo linguaggio convintamente realista. Il quadro è molto legato alla sua storia e alle sue radici: rappresenta infatti la scena di un funerale di popolo nel cimitero di Ornans, paese del Giura dove l’artista era nato e dove sempre tornava.
Sullo sfondo si vedono le montagne con il loro zoccolo di roccia, in primo piano, a proporzioni naturali, tutti gli astanti al rito di sepoltura. Sappiamo i nomi di tutti quei 26 personaggi che circondano il sacerdote, personaggi noti nel paese oppure famigliari dell’artista (ci sono sulla destra sua mamma e le tre sorelle): quindi il realismo è davvero rispettato alla lettera, come si trattasse di pittura di cronaca. C’è la parte cattolica (con i chierichetti e i due sacrestani vestiti di rosso smagliante) e anche quella laica, con i due rivoluzionari sul bordo della fossa, sulla destra. Lo sguardo di Courbet, che di suo era un appassionato libertario, è davvero inclusivo: il quadro si distende in larghezza proprio per tener dentro tutti, anche la cuginetta dell’artista che sulla destra avrebbe voglia di svignarsela. Siamo nel cuore del rito. Il curato ha il breviario aperto tra le mani e sta leggendo le preghiere in suffragio del o della defunta: infatti l’unica notizia che ci manca è relativa alla persona che sta per essere sepolta.
Il cielo è incupito come se anche il contesto partecipasse alla tristezza del momento. Contro il cielo si staglia il crocifisso astile, unico simbolo a vegliare su quel semplice funerale di paese. È un’immagine compatta, senza fronzoli, senza sentimentalismi: tutto semplice e tutto reso ancor più vero dal fatto che Courbet, pur non comparendo, non si chiama fuori, né si pone sopra. Lo possiamo immaginare qualche metro più in qua, parte di quel popolo, a prender gli schizzi per poi lavorare alla tela nello studio angusto di Ornans.
Questo quadro per lui però rappresentava una sfida. Lo avrebbe esposto infatti l’anno successivo al Salon, la grande mostra ufficiale che veniva allestita per presentare i nuovi lavori degli artisti e dominata dal gusto dettato dall’Accademia. Presentarsi con un quadro così era come dare un plateale schiaffo all’ufficialità. Questa franca rappresentazione di un mondo reale suonava come una provocazione, anche perché portava alla ribalta un mondo minore, destinandogli però non le dimensioni piccole di un quadro di genere, bensì quelle monumentali che per consuetudine erano tipiche per i soggetti nobili, storici, mitologici o anche religiosi. Courbet invece monumentalizza programmaticamente la quotidianità paesana, dando pieno respiro alla forza di realtà che la caratterizza. Non ricorre ad escamotage retorici, tanto che il suo quadro sembra quasi dipinto con la stessa terra cruda rimossa per scavare la fossa.
Charles Baudelaire, chiamato a recensire il Salon 1850, aveva sottolineato la “sua volontà selvaggia e paziente” di dare gloria alla “realtà positiva e immediata”. Così è. Courbet, artista dal temperamento libertario, aveva messo il suo impeto di ribellione al servizio di un mondo per il quale la morte s’inscriveva con naturalezza e senso dentro il cerchio della vita.
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