La spinta per un “piano casa” da parte del Presidente di Confindustria Emanuele Orsini sembra intercettare più di uno “spirito del tempo”. Il primo – certamente in sé problematico – è la preoccupazione del mondo imprenditoriale per i possibili effetti depressivi del depotenziamento dei bonus edilizi previsto dalla manovra 2025. È del resto il contraccolpo inevitabile dei pesanti squilibri creati dal Superbonus 110% sulle finanze pubbliche: impatto sgradito anche alle imprese edilizie efficienti e corrette, che hanno visto fra l’altro inquinato il proprio mercato da operatori spesso improvvisati e dotati di standard di professionalità e legalità molto diversi. Forse anche per questo l’attenzione attiva di Confindustria per il Piano Casa Italia nella Legge di bilancio in discussione in Parlamento ha una visibile apertura agli interessi collettivi, in una fase di ricostruzione della competitività dell’Azienda-Paese dopo una lunga fase caratterizzata dalla pandemia e poi dalla crisi geopolitica.



Il nodo che Orsini chiede venga sciolto il più possibile presto e bene è quello della cosiddetta “trappola della mobilità”. Quello illuminato fra l’altro dal Rapporto Draghi è un momento di tendenziale reinvestimento: anche in capitale umano. Ma i lavoratori – soprattutto i più giovani – chiamati a sostenere la “recovery” nei diversi segmenti d’impresa, devono poter rispondere con la massima flessibilità, a una domanda di lavoro in tempo ultra-reale. Per questo non possono essere fermati dall’offerta di case d’abitazione in affitto: anzitutto nei distretti metropolitani dove i canoni sono strutturalmente alti e oggi appesantiti dai riflessi inflazionistici. Il mismatch fra domanda e offerta di lavoro – a tutti i livelli – nella visione di Confindustria ha alla sua prima radice la trappola della mobilità.



Il Governo non è assente a questo tavolo. la detassazione dei fringe benefits fino a 5mila euro all’anno per i lavoratori che affrontano un trasferimento di oltre 100 chilometri per un’offerta di lavoro è una prima previsione. Una seconda direttrice – più strutturale – guarda all’impegno diretto delle imprese (grandi o in pool) nella costruzione di alloggi per i dipendenti. Qui l’Italia ha una tradizione molto lunga (la più citata è quella dell’Olivetti post-bellica) che ha marciato di pari passo con un’edilizia popolare pubblica (“il “piano Fanfani” del dopoguerra) e sociale, a solida base cooperativa.



Nel ventunesimo secolo, la strategia ha virato con decisione sull’housing sociale: anzitutto una strumentazione operativa modernizzata dalla finanza immobiliare. La Cdp – con i suoi fondi – ha già battuto il terreno, in parallelo ad alcune grandi Fondazioni di origine bancaria. La sussidiarietà immobiliare si muove in ogni caso già su un doppio binario pubblico-privato (per certi versi analogo a quello del lungo sviluppo della previdenza a tre pilastri). L’ora dell'”housing sociale” sembra scoccare di nuovo: la “trappola della mobilità” non insidia solo i lavoratori, ma anche studenti e ricercatori universitari. Cittadini europei o migranti da ovunque. Regolari o regolarizzabili.

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